«Ho deciso di rimanere qui e continuare a lavorare a distanza». Elena Militello, 27enne ricercatrice siciliana, risponde al telefono dalla sua casa di Palermo. Ha appena finito una call di lavoro con Milano. E un’altra comincerà tra non molto.
Era andata via dalla Sicilia dieci anni fa. Poi è arrivato il Covid. L’università del Lussemburgo, con cui ha un contratto di ricerca in procedura penale comparata, da marzo ha spostato tutte le attività online. E lei è tornata «giù». E mentre il mondo intero era in lockdown, ha capito che «giù» poteva anche restarci. Senza dover rinunciare a quel lavoro che si era conquistata su al Nord. Semplicemente, lavorando da remoto.
La scrivania nella campagna palermitana vista mare (anche se, dice, «lavoro molto e il mare lo vedo poco»). Una connessione veloce. E il lavoro con l’ateneo lussemburghese e l’università Bocconi è proseguito senza intoppi.
Ascoltando giorno dopo giorno le storie di tanti come lei, a Elena si è accesa la lampadina. E insieme ad altri otto expat siciliani, ha fondato “South Working – Lavorare dal Sud”, che presto diventerà un’associazione culturale.
L’idea è di aiutare i lavoratori da remoto a restare in Sicilia, Calabria, Puglia, Campania o Basilicata, pur avendo contratti con aziende che hanno sede altrove. In Italia o all’estero. Offrendo supporto per dialogare con le aziende e trovare la formula contrattuale ideale, e mappando la rete di coworking sui territori per permettere di lavorare anche fuori casa, fare rete ed evitare l’isolamento sociale.
Elena ha studiato i casi di multinazionali e grandi studi legali che stanno adottando la formula del “working everywhere”. E dice: «In Italia si può fare a legislazione vigente, senza cambiare nulla, grazie alla legge sullo smart working del 2017».
Più di 800 persone hanno già aderito a “South Working”. I follower sui social crescono di giorno in giorno. E in tanti, come Elena, hanno già deciso di fermarsi «giù», almeno fino a fine anno. Poi si vedrà.
Il progetto è in fase avanzata. Elena non ha perso tempo: si è messa in contatto con gli enti locali, le aziende del territorio e le altre associazioni che via via si stanno formando nelle altre regioni del Mezzogiorno con la stessa finalità. Al progetto ha aderito l’associazione Global Shapers, legata al World Economic Forum. E dallo Svimez le hanno già chiesto di inglobare nel prossimo rapporto 2020 i risultati del questionario che sta sottoponendo agli aspiranti south worker per mettere in piedi un vero e proprio osservatorio sul fenomeno.
L’obiettivo è quello di creare un coordinamento nazionale. Un nuovo movimento verso il Sud e le province, finora luoghi di partenza che invece potrebbero diventare luoghi di arrivo. Il lavoro a distanza diffuso a cui il virus ci ha costretto potrebbe ribaltare improvvisamente le prospettive di vita di tanti ragazzi. E mescolare il Sud, il centro e il Nord. Un’occasione unica per il Mezzogiorno e le aree interne italiane. Ma a patto che si sia in grado di coglierla.
Secondo gli ultimi dati Svimez, in 15 anni 2 milioni di giovani laureati e lavoratori si sono trasferiti dal Mezzogiorno al Nord Italia, con un trend crescente: se nel 2001 i laureati meridionali che emigravano erano il 10,7%, nel 2011 la percentuale è più che raddoppiata, raggiungendo il 25%. Capitale umano che, con il lavoro a distanza in valigia, ora potrebbe rientrare. E magari fare da apripista a quelli che hanno sempre sognato di vivere a due passi dal mare, e che già in questi mesi estivi hanno fatto i bagagli dalle grandi città e si sono spostati verso Sud, incrociando lavoro e vacanza.
Una nuova prospettiva
Se c’è una cosa che la pandemia ci ha insegnato, è che la vera innovazione non è dove lavori, ma come lo fai. Una nuova consapevolezza a cui si sono arresi anche i più scettici, che ha portato a un cambio di prospettiva: la città non è più il fulcro delle nostre attività.
Se n’è accorto il sindaco di Milano Beppe Sala, tra qualche scivolone sullo smart working e la preoccupazione per le conseguenze economiche dei ristoranti vuoti e delle case sfitte.
E se ne sono accorti anche molti piccoli comuni, tra i quali si registra una vera e propria corsa a garantirsi la connessione veloce. Diventata vitale in tempi di Covid. Eolo, la società che ha portato Internet veloce via radio sulle cime più sperdute degli Appenini e nei luoghi dimenticati dai grandi operatori, negli ultimi mesi ha registrato un boom di richieste di nuove connessioni. Nel mese di maggio, rispetto allo scorso anno, hanno registrato un +22% di richieste proprio dai comuni con meno di 5mila abitanti. «C’è una nuova attenzione ai temi della connettività, in particolare nei piccoli comuni, dove tra lavoro da casa e didattica a distanza la richiesta è cresciuta in maniera importante», spiegano dalla società.
Investimenti che, visti nel lungo termine, potrebbero ridurre le enormi differenze geografiche italiane. «Il south working è l’occasione per ridimensionare il divario territoriale, economico e sociale che viviamo in Italia», dice Elena Militello. «Il nostro obiettivo è ridurre il divario tra le varie regioni, ma al rialzo, in modo da stimolare l’attrattività dell’intero sistema Paese. Dopo lo stravolgimento della pandemia, si può ripensare la geografia lavorativa».
Insomma, «risolto il problema del lavoro, viene meno il principale ostacolo al rientro al Sud». Serviranno, dice Elena, «contratti di lavoro a distanza, e poi di tanto in tanto si può partire per incontrare con i propri gruppi di lavoro in base alle necessità».
Ma non basteranno un computer e una connessione al Sud Italia o alle aree interne per cogliere l’occasione di riscossa creata dalla crisi Covid. «Per ridurre davvero i divari territoriali, occorre intervenire sulla carenza dell’offerta dei servizi di base che si registra nelle aree marginali, del Sud come del Nord», dice Sabina De Luca, membro del Forum Disuguaglianze Diversità. «Il vantaggio di restare in alcuni posti è che sono luoghi più salubri, che permettono di vivere a contatto con la natura o vicino al mare. Ma se non ci sono scuole, trasporti e sanità accessibili, non c’è lavoro a distanza che tenga».
Cosa dovrebbero fare allora questi luoghi prima marginali passati improvvisamente in vantaggio rispetto alle grandi città svuotate dalla pandemia? Il Forum Disuguaglianze Diversità ha presentato una proposta operativa per spendere «bene» le risorse europee e «liberare il potenziale di tutti i territori», consegnando un documento al ministro per il Sud Giuseppe Provenzano. Le richieste sono: una politica di sviluppo “rivolta ai luoghi”, la creazione di nuovi spazi di lavoro comuni a disposizione chi lavora da remoto e non può o non vuole farlo a casa, e un metodo di lavoro territorio per territorio, senza grandi piani nazionali redatti nel chiuso dei palazzi romani.
La connessione veloce, ovviamente, è la premessa. Cosa che in Italia, soprattutto nei piccoli comuni, non è garantita affatto. E mentre si moltiplicano anche a Sud i sindaci che emettono bizzarre e anti-economiche ordinanze contro il 5G, Sabina De Luca invece raccomanda: «Bisogna accelerare un piano infrastrutturale che dia la possibilità di avere accesso alla banda larga e ultra larga anche nelle aree marginali».
Insomma, vietare il 5G a Reggio Calabria o Messina, come hanno fatto i sindaci delle due città, proprio in un momento in cui la connessione rappresenta un volano di crescita per il Sud, è un po’ come tagliarsi le gambe.
Per convincere chi è andato via a restare lavorando a distanza, non basterà la retorica sul contrasto alla fuga dei cervelli. Serviranno infrastrutture, soprattutto tecnologiche, scuole, ospedali e occasioni di socialità. «Palermo è la seconda città più cablata d’Italia e ha l’aeroporto vicino per potersi spostare facilmente», dice Elena. Ma molte altre realtà, del Sud e non solo, non offrono gli stessi servizi. «Dobbiamo creare massa critica, chiedendo alle istituzioni un impegno per il miglioramento del territorio». Il rientro di lavoratori altamente qualificati e con stipendi medio-alti significa nel breve termine «iniettare liquidità economica e incrementare i consumi» e nel lungo termine rappresenta anche «uno stimolo agli investimenti in questi luoghi, con un miglioramento della condizione dei territori stessi, che possono diventare attrattivi per i talenti italiani e stranieri alla pari delle regioni o delle città più avanzate».
Come dimostra il caso di Edgemony, che abbiamo raccontato su Linkiesta qualche giorno fa. L’azienda, nata nei primi giorni di lockdown dall’idea di due ex manager della palermitana Mosaicoon, punta a reperire e formare team di lavoratori da remoto in Sicilia per le società italiane e straniere. I due imprenditori, grazie ai contatti accumulati con l’esperienza precedente, hanno già chiuso un accordo con un’azienda di San Francisco, e sono in contatto con una società svizzera, una con sede a Berlino e altre sei aziende italiane sparse tra Roma e il Nord Italia. Qualche “cervello in fuga” sta già rientrando da Milano o dall’estero per far parte del team. Altri cinque sviluppatori sono già stati assunti.
«C’è una grande voglia di restituire alla comunità quello che abbiamo appreso in giro per l’Italia e per il mondo, stavolta però senza dover essere eroici e rinunciare al lavoro. Questa è una grande occasione», dice Elena.
Oltre la retorica
Andrea Paoletti è un architetto di origine piemontese. Da oltre otto anni si è trasferito in Basilicata. Una sorta di pioniere di quello che sta accadendo con il post-Covid. A Matera ha fondato Casa Netural, spazio di coworking, coliving e incubatore tecnologico nel cuore dei Sassi. E a 30 chilometri da lì ha creato l’impresa sociale Wonder Grottole, impegnata nel recupero del centro storico del borgo lucano, che lo scorso anno insieme a Airbnb ha lanciato l’“Italian Sabbatical”, un concorso che offriva agli stranieri la possibilità di trasferirsi tre mesi nel borgo. Alla chiamata risposero in oltre 280mila per cinque posti. E alla fine, due di loro, entrambi americani, hanno persino comprato una casa a Grottole.
Poi è arrivato il coronavirus. E l’isolamento del borgo, in questo caso, ha aiutato. La Wonder Casa, la casa nel rione Amedeo del centro storico che l’impresa ha comprato e ristrutturato, con la connessione wifi e il silenzio assicurato, è diventata la meta ideale di turisti, nomadi digitali e lavoratori smart. Andrea Paoletti preferisce chiamarli «residenti temporanei», ma il suo sogno è che qualcuno prima o poi si fermi. Che diventi un «residente permanente». «Non solo chi è originario di qui e ritorna in paese, ma anche chi decide di venire a viverci», spiega.
Al momento nella Wonder Casa si possono accogliere solo sei persone, ma l’idea è quella di creare un’unica rete con tutte le strutture del paese e arrivare almeno a 20-25 stanze. Tutte rigorosamente con la rete wifi. E dal piccolo borgo di Grottole, Andrea sta partecipando al progetto internazionale Anima, che ha proprio l’obiettivo di portare i nomadi digitali nei centri periferici per lavorare da remoto.
«I piccoli comuni offrono quella dimensione perfetta che permette di coltivare le relazioni e la sicurezza, all’interno di una comunità accogliente in cui può davvero avvenire uno scambio di competenze», racconta Andrea. «Ma al di là della retorica del ritorno nei borghi, dobbiamo creare le condizioni perché questo accada». Nella parte nuova di Grottole abitano poco meno di 2mila persone, nel centro storico circa 200, con 600 case disabitate. «Il paese è in fase di spopolamento, ma non è ancora spopolato», dice. «Ci sono un benzinaio, due bancomat, la scuola elementare e media, un presidio medico e svariati ristoranti. Finché ci saranno le persone, questi servizi continueranno a esserci, se aumenteranno se ne creeranno di nuovi».
È quello che dice anche Sabina De Luca del Forum Diversità e Disuguaglianza. «In questi luoghi finora marginali possono nascere nuove opportunità di lavoro per chi, in mezzo alla crisi, vuole reinventarsi o per chi ha perso il lavoro», spiega. «Ci sono bisogni e abitudini che la crisi sanitaria ha reso ancora più evidenti: dal turismo più rarefatto nei piccoli comuni, ai servizi di cura alla persona, dalla medicina territoriale che si è dimostrata essenziale alle organizzazioni di festival ed eventi culturali in luoghi diversi rispetto ai grandi luoghi affollati a cui eravamo solitamente abituati in città».
«Non è che tutte le persone torneranno nei paesi o lasceranno la città», dice realisticamente Andrea Paoletti. «Ma avranno l’occasione, grazie al lavoro a distanza, di lavorare di più nei borghi, nei piccoli comuni del Sud e delle aree interne, magari facendo sei mesi a Milano, tre a Grottole e tre al mare». Perché no?