A Ferragosto partivano i poveri.
L’ho scoperto tardi, all’inizio della mia vita Ferragosto non esisteva. I miei anni Settanta – gli anni Settanta di tutti quelli che conoscevo, giacché quando sei piccolo la vita che fai non è la vita che fai tu: è la norma – non erano dissimili dagli anni Venti di Susanna Agnelli: «Dopo gli esami partivamo per il mare».
La villeggiatura era un trimestre indistinto (liquido, direi se avessi studiato) in qualche luogo di mare, di campagna, di famiglia, del quale da adulta non ho mai smesso di chiedermi: come si faceva coi vestiti? È impossibile trovare un lavasecco aperto in agosto ora, che i negozi hanno smesso da decenni di fare la pausa pranzo e l’umanità ha smesso di fare ferie trimestrali, figuriamoci nel Novecento. Forse c’era sempre qualcuno che stirava, qualche figura oggi irraccontabile senza scandali quanto la cameriera che i bambini Agnelli facevano piangere chiedendo per divertimento che papà fingesse di volerla licenziare. Forse il vero privilegio dell’infanzia è non preoccuparsi di come farai ad avere qualcosa di pulito da metterti.
Gli anni Ottanta erano un po’ diversi perché iniziavo a essere abbastanza grande da pretendere di fare pezzi di vacanza senza famiglia, e quindi magari capitava di ripassare in città, d’estate («Bologna, importante nodo ferroviario» più utile verità appresa dal sussidiario delle elementari). Ma agosto era un insieme comunque indistinto (liquido), se volevi comprare i giornali la domenica dovevi andare in stazione (l’edicola chiusa come misura dell’estate è un concetto persino più antico del juke-box, e infatti alla Fondazione Prada hanno un juke-box, mica un’edicola: vintage, mica preistoria).
È quel Novecento che hanno raccontato un po’ tutti, e tutti meglio di me. Arbasino: «Ma erano anche le mie ultime vacanze lunghe» (Le piccole vacanze); il Vestivamo alla marinara di Susanna Agnelli, appunto; i Vanzina (nella stessa Forte dei marmi di Suni, alla quale arrubbarono pure i nomi dei personaggi minori, com’è giusto fare coi classici della letteratura).
Ferragosto non è esistito fino agli anni Novanta, quando andai a vivere a Roma e scoprii che era una festa comandata, e che il 15 di agosto i romani mangiano il pollo coi peperoni (un piatto fresco, che non ti fa salire la temperatura corporea a cento gradi, un delizioso segno dell’impeccabile logica che governa la città).
Fu quando cominciarono le mie piccole vacanze, Instagram senza Instagram, c’era sempre un flirt la cui cugina aveva affittato una villa in Toscana, uno che organizzava una festa nella sua villa in costiera, una piscina fuori città, una duna, una Saturnia.
Fu allora che scoprii che la città – dalla quale ripassavo col dramma delle valigie da cambiare e niente di stirato, dovendomene orrendamente occupare in proprio – era davvero vuota solo nella seconda metà del mese. È quando, al Forte, in Sapore di mare il cielo si rompe e, coi temporali, arriva la fidanzata di città a interromperti il flirt estivo.
Le lavanderie figuriamoci, quelle chiudevano a fine luglio e ti mollavano da prima; ma il deserto degli esseri umani e il problema di trovare un bar non orrendo che ti facesse un cappuccino, quelli attenevano alla seconda metà di agosto. Quando partivano gli abbastanza poveri da essere disposti a sopportare i primi temporali, purché quella vacanza costasse un poco meno.
Poi è arrivato il 2020. Un anno un po’ crudele e un po’ ridicolo, in cui tutti quelli che hanno passato la primavera a frignare per i mancati incassi hanno poi trascorso luglio e la prima metà di agosto a instagrammarsi da piccole vacanze che spero per loro siano a scrocco (dicono che lo fanno per non pensare alla crisi economica che ci attanaglierà in autunno, e in effetti chiunque non abbia bigiato tutte le lezioni di economia all’università reputa una stanza in costa Smeralda un buon investimento in vista dell’autunno gelido del proprio conto corrente).
La trombona novecentesca che è in me ritiene un gran vantaggio che all’epoca al massimo si mandasse un mazzo di fiori per ringraziare la padrona di casa della splendida discesa a mare nella villa di Vietri, e di quelle deliziose bufale che ci serviva all’alba (eravamo giovani, facevamo nottata). Adesso, che le piccole vacanze a scrocco galateo vuole tu debba taggarle, è tutto un po’ miserabile, di quella miseria speciale che luccica in un universo di pixel studiato per sembrare più ricchi, più luminosi, coi pori più stretti.
Adesso, in questo anno crudelmente ridicolo, sembra che la regola della seconda metà d’agosto non valga più. Sono molto curiosa delle prossime due settimane. Quelli che fotografano granite e tramonti e piscine e pinne fucile e occhiali da un mese torneranno, sancendo un’inversione di calendario rispetto alle tradizioni? O prolungheranno i loro itinerari, una volta che sei andato dall’amico benestante in Sicilia e dal parente in Liguria ti avanzano ancora la Puglia (chi non ha un affetto stabile in Salento) e la Toscana da smaltire, e che senso avrebbe tornare in città a tintorie ancora chiuse?
Non sarà che, tra i portati di quest’anno assurdo, c’è anche il ritorno del Novecento? Non saranno tornate le vacanze lunghe? Certo, potremmo prenderla per una buona notizia, la fine delle gabbie temporali rigide. Eppure, tra le figure istituzionali autorevoli di cui sentiamo la mancanza, la trombona novecentesca in me percepisce come più importante assenza quella d’una miss Parker, che a mezzogiorno meno dieci sventolava il fazzoletto, il bagnino gridava «Fuori, fuori, è ora!», e i bambini Agnelli non potevano tardare cinque minuti se volevano il giorno dopo il permesso di fare il bagno. Era cent’anni fa. Era quando a Ferragosto partivano i poveri.