NoiLa peggior generazione di tutti i tempi e l’epoca dell’intangibile

Cuoricini, spolliciate e visualizzazioni sono una tentazione irresistibile per tutti noi, nessuno escluso: solo che se non hai i numeri della Ferragni non valgono nulla. Però allo stesso tempo vogliamo sentirci importanti e pretendiamo d’essere interpellati su problemi seri: non abbiamo capito se vogliamo essere Bob Woodward o Elisabetta Franchi

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Chissà se l’ultimo dinosauro a morire, un secondo prima di spirare, ha sentito un friccico sul collo e ha pensato non fosse mica l’estinzione, ma l’universo che gli faceva un grattino affettuoso.

Ci ho pensato l’altra sera, in un ristorante milanese caritatevolmente ancora aperto, mentre qualcuno diceva a una ragazza, collaboratrice di giornale, che su quella testata è l’unica che legge; e lei, convinta fosse un grattino, piegava la testa di lato e sorrideva compiaciuta, inconsapevole che nessuno salva un giornale da solo, e che quella che le avevano appena formulato non era una lode: era una diagnosi terminale.

Faceva dire Nora Ephron a un personaggio di “Harry ti presento Sally” che i ristoranti erano per gli anni ‘80 quel che le gallerie d’arte erano state per i ‘60. I giornali sono per questo secolo quel che i ministeri erano per il Novecento: luoghi che lasciano insoddisfatto l’utente, vengono portati avanti stancamente da chi li governa, ma sono un’ambizione ossessiva per chi li vede da fuori e vorrebbe entrarci; perché la mistica americana di “Tutti gli uomini del Presidente” in Italia diviene posto fisso di Fantozzi o di Zalone, ma soprattutto perché a nessuno che non abbia il naso sulle vetrine importerà mai della pasticceria quanto allo smanioso social che passa le giornate a cercare refusi e dire che lui sì, saprebbe fare.

Ephron, dicevo. È un buon esempio, ce ne sarebbero altri ma va bene lei. Ogni volta che lodiamo la sua poetica delle piccole cose, il suo umorismo sui dettagli, il suo occhio affinato, scordiamo che non c’era granché altro. La frase sui ristoranti è bella, ma vale solo perché l’ha formulata per prima, e perché quel giorno su Twitter non l’avevano detta simile in altre quattrocento, alcune delle quali magari con parole più semplici che aiutassero a moltiplicare i like.

Ephron abitava un tempo in cui erano quattro miliardi, mica otto: chiunque pensi d’avere un futuro professionale perché è la più brillante di otto miliardi di persone al mondo deve farsi aggiustare il piano terapeutico dallo psichiatra.

Ephron abitava un tempo in cui scrivevi una frase brillante e per due anni aspettavi di vedere se la gente al cinema rideva. Una Ephron di oggi (una delle otto miliardi di Ephron di oggi, tutte con accesso a un editore chiamato social network) al terzo «genio» ci crede, ed è lì che comincia la rovina.

Sere fa, nello stesso ristorante (ve l’ho detto che è l’unico aperto), parlavo con una scrittrice mia coetanea. Ci dicevamo quanto siamo state fortunate a salire sul Titanic, invece che nel viaggio inaugurale, in quello di prova: quello in cui ancora non c’erano le iperboli. Scuotevamo la testa come le anziane signore che siamo, e lei, d’una perenne promessa che non verrà mai mantenuta, ha detto: «Le dicono “grazie di esistere”, perché non dovrebbe crederci?».

La scrittrice e io ci differenziamo perché, secondo lei, se l’internet ti dice genio, una qualche differenza la fa; per me è rumore di fondo finché non te lo dicono in venti ferragniani milioni e relative fatture aziendali.

Ma non è quello il nodo. Il nodo è che ci avremmo creduto anche noi, non fossimo arrivate sull’internet già con gli anticorpi formati e il senso del ridicolo attaccato col collante per dentiere. Quasi ci crediamo anche noi, la volta che scriviamo una cosa più furba, più facile, più foriera di cuoricini.

La temperatura dei cuoricini è una tentazione irresistibile, neanche il ristoratore che ti poggia il termometro digitale sulla fronte e ti dà il permesso d’entrare dà lo stesso friccico. Anche se sappiamo che l’approvazione della rete sancisce mediocrità (siamo otto miliardi: ci riterremo mica otto miliardi di apprezzatori di glosse hegeliane?), è una droga. Quanti cuoricini hai fatto tu ieri? Quante visualizzazioni? Quanti pollici?

Solo che il campionato non è quello. Lo è, appunto, se sei Chiara Ferragni, e riesci a vendermi Dior in alta stagione e Viakal in quarantena. Non lo è se pensi che qualcuno comprerà una testata, si abbonerà, addirittura cercherà un’edicola (siamo passati dall’iperbole alla fantascienza) solo perché ti mette i cuoricini.

Sai quanti libri ho scaricato e dimenticato su Kindle? Sai quante newsletter di articoli bellissimi non aperte? Sai quante volte Amazon mi dice «questo volume l’hai già ordinato due anni fa» (sottintendendo: asina, e pure sprecona)? Sai quante serie ho segnato come da vedere sulle piattaforme e ancora neanche ne ho guardata una puntata?

Sarà ora di sostituire quella frase sfattissima che è «È la stampa, bellezza» con una nuova rassegnazione: è l’immateriale. È l’epoca dell’intangibile; e, così come scaricare il libro sull’iPad mi fa sentire meno in difetto che immaginarlo a prender polvere in qualche anfratto di casa, allo stesso modo posso polliciarti e cuoricinarti, ma figuriamoci se ti leggo, se ti compro, se ti considero abbastanza Ferragni da comprare un giornale solo per te.

Credo sia impossibile capirlo, se hai venti o trent’anni e sei cresciuta coi telefoni che facevano le foto. Vai a spiegare a una abituata a pubblicare la propria vita in diretta ogni giorno che per Tom Wolfe gli anni ‘70, coi rullini da sviluppare, erano il trionfo dell’ego, quegli anni in cui dire «io» su un giornale presupponeva tu avessi un «io» interessante (torna tra noi, Tom, ho Instagram da farti studiare).

Ma il guaio, come sempre, non è la venti o trentenne che s’illude di poter diventare una one woman band. Il guaio siamo noi. La peggior generazione di tutti i tempi. Noi che a cinquanta iniziamo a pensare di dover vivere come nativi digitali, contarci i like, controllare le visualizzazioni, instagrammare la pizza, riprenderci i piedi che entrano in acqua, fare d’ogni sospiro uno spettacolo perpetuo. Noi indecisi tra essere Bob Woodward ed essere Elisabetta Franchi. Noi nel mezzo.

Noi che vogliamo ci ritaglino l’editoriale da attaccare sul frigo (massima consacrazione a faro intellettuale per relitti del Novecento), ma anche avere più cuori di tutti sotto le foto del sushi. Noi che siamo il giornalista che chiede la foto al politico col libro da promuovere bene in vista, e il politico cui non sembra inopportuno farsela, e il consigliere per l’immagine che non ha obiezioni, e ci percepiamo persone serie, col nostro prosciutto Rovagnati in favor di camera.

Noi che pretendiamo d’essere interpellati su problemi seri ma anche di fare la battuta più tagliente e ritwittata. Noi che lodiamo Aldo Moro in spiaggia con la cravatta ma poi siamo Carlo Calenda in costume col cigno. Noi che ambiamo a fare i libri sofisticati come i tromboni d’una volta ma pure le dirette Facebook in cui diciamo che siamo primi in classifica come i tromboni di oggi. Noi che sentiamo il friccico dietro al collo. Noi. Nessuno si senta escluso.

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