La Raggi che si ricandida, i ladri di polli dei seicento euro, l’impossibilità di farsi una risonanza magnetica a Milano in agosto: se tutto si spiegasse col fatto che oggi, giacché la tv imita la realtà, The West Wing non si potrebbe mai girare?
The West Wing è uno sceneggiato televisivo cominciato alla fine del secolo scorso sulla Nbc. In Italia lo mandava Rete4, e alcuni di noi se ne appassionarono nonostante lo scempio del doppiaggio (l’adattamento non si prendeva il disturbo di cercare di rendere seppur indegnamente le sofisticatissime battute: neanche ci provava).
Quegli alcuni di noi hanno passato gli ultimi vent’anni a dire, di qualunque avvenimento politico, «era già successo in West Wing». Non era un’iperbole, c’era già tutto, da «troveremo la cura per il cancro» detto in un comizio alle assunzioni degli insegnanti al timore d’una pandemia ai vaccini alla predisposizione dell’elettorato a offendersi alla smania dell’internet di dir la sua (non c’erano ancora i social: la puntata in cui una segretaria spiega a un dirigente che «questa gente non ha preso le goccine» attiene ai forum, e sembra scritta domani).
Adesso Prime ci ha rallegrato l’agosto mettendoci a disposizione The West Wing, e la stiamo tutti riguardando, anche noi che avevamo i dvd inglesi ma chi aveva più voglia di cercare i cofanetti nella polvere e collegare il lettore.
E adesso è chiaro che le ragioni per cui oggi Tww sarebbe impotabile non sono quelle cui avevamo pensato negli ultimi anni. Non sono le donne che servono come espediente per spiegare cose al pubblico spiegandole a loro, e insomma ci state dicendo che i personaggi femminili sono scemi, brutti maschilisti di autori (la moglie del presidente è una cardiochirurga, la consigliera per la sicurezza nazionale è cazzuta come pochi, ma cosa contano i fatti di fronte a un potenziale cancelletto).
Non sono i cattivi che non esistono, perché in Tww tutti perseguono il bene magari arrivandoci da lati diversi, e gli ultimi anni sono quelli di Macbeth, di Riccardo III, di Frank Underwood, quelli della mistica della malvagità, come si fa a guardare questi pieni di buone intenzioni, noialtri siam postmoderni.
A fare di Tww il relitto d’un secolo che non c’è non è la mancanza di moine sulle quote («Ho delle vere battaglie da combattere, non ho tempo per quelle cosmetiche», dice il capo dei generali, nero, quando gli chiedono se paia brutto che il presidente si prenda un assistente nero, un ragazzo nero che, santo cielo, gli porterà la valigia), o il tentativo di perseguire il bene di chi governa il paese magari con idee diverse ma senza tramare per il solo gusto di sentirsi un malvagio da fumetti, o le puntate le cui trame dipendono dalla mancanza di possibilità di telefonare quando sei in giro.
A rendere Tww un’anticaglia è l’intelligenza.
Intelligenza è una parola abbastanza scema da essere imprecisa, e probabilmente ognuno di noi ne dà una definizione diversa. Quelle che ci sono in Tww sono tutte le intelligenze possibili.
Quella dei propri limiti. Se non sei all’altezza, non importa quante pubblicità di shampi e riviste femminili t’abbiano detto che tu vali: capirai che non è cosa per te, e non ti candiderai a fare un lavoro che non sai fare.
Non frignerai che il mondo ti critica perché sei donna o nero o celiaco o dislessico, non darai la colpa alle circostanze, non passerai le giornate a cercare attenuanti e mai responsabilità, diritti e mai doveri. Prenderai atto della sconfitta, passerai ad altro.
Quando Amy – militante femminista, capo dello staff della first lady, lobbyista, fidanzata del vicecapo dello staff – viene cacciata dai suoi lavori perché s’impegna su una questione e la sua linea viene sconfitta, c’è un’illuminante (e impensabile oggi) conversazione col suo ex. Ha perso il lavoro, si sono lasciati, e quello che tiene il broncio è lui (erano gli anni in cui i personaggi femminili e gli sceneggiatori maschi sapevano che gli uomini erano il sesso debole).
Dice Amy a Josh: «Ho combattuto, ho perso, mi sono fatta una doccia, mi sono versata da bere. È così che funziona nella Nba. Sai che differenza c’è quando vinco? Mi verso da bere due volte». La guardi, pensi a Virginia Raggi che si versa da bere, sospiri.
L’intelligenza delle circostanze. Nessuno, in Tww, arrafferebbe seicento euro. Non perché tutti siano fondamentalmente onesti: perché sono tutti troppo svegli per sputtanarsi per così poco.
Anche i repubblicani, i cattivi, i retrogradi, quelli che non hanno la risposta pronta (massimo crimine in questo universo), quelli che smaniano per l’attenzione del presidente o dei giornali, quelli che hanno piccole frustrazioni e pestano i piedi. Nessuno è scemo come un personaggio di Veep, la serie degli anni recenti in cui alla Casa Bianca eran tutti scemi (ve l’ho detto che la televisione imita la realtà).
Un eventuale futuro miglioramento della realtà lo scopriremo dalla tv che non ha mai sbagliato nell’imitarci, solo la scemenza contemporanea può pensare che il meccanismo sia inverso (che i populisti trionfino perché li vediamo nei talk, invece di pensare che i talk l’invitino perché il pubblico vuole politici che lo rispecchino, neanche deformandolo troppo).
Quando, dopo due settimane a cercare invano di trovare qualcuno che prendesse i miei soldi per farmi una risonanza, ho deciso che non potevo aspettare i tempi ufficiali e soffrire fino a settembre, mi sono arresa a farmi raccomandare.
Nel giro d’una mattina avevo una diagnosi telefonica, una visita organizzata, una risonanza prenotata. Ho contribuito al peggioramento del tessuto morale del paese arrendendomi alla pigrizia del mio, di tessuto morale. Quello che preferisce farsi passare il dolore che stabilire un punto di principio.
Non somiglia alla Raggi, The West Wing, dove nessun mitomane ciancia mai di sindrome dell’impostore; non somiglia a quelli che si arrubbano gli spicci di sussidi miserrimi, come avessero scelto di raccattare le monetine davanti al Raphael invece di metter su giri milionari di tangenti; è ora di smetterla di cercare capri espiatori, e ammettere che non somiglia neanche a me.