Ho smesso di pesarmi in un punto imprecisato della mia vita adulta, da qualche parte tra i 40 e i 45 anni, molto prima di Jerry Falwell jr. e Laura Lippman. E, se non avete mai sentito nominare nessuno dei due, dovete solo avere un po’ di pazienza: entro un centinaio di svelte righe prometto di spiegarvelo.
Ho smesso di pesarmi quando ho scoperto il sito inglese di Gap, sul quale puoi comprare pantaloni di taglie che in un negozio italiano ti vergogneresti di dire a voce alta. Ed è un attimo, da comprare taglie superiori alla 44 (l’ultima taglia considerata accettabile per signore milanesi: dopo, c’è solo la tenda da circo) a renderti conto che anche una taglia abbondante è scomoda, se ha lampo o bottoni.
Ho capito cosa volevo dalla vita molto prima che la vita ci chiudesse in casa, e che il magazine del New York Times ne prendesse atto mettendo, sulla copertina di domenica prossima, il titolo “Sweatpants forever” sull’immagine sventolante del mio presente e del vostro futuro: un paio di pantaloni con l’elastico.
Sono stata una bambina inappetente che aveva tutte amiche più magre di lei. Era perché avevo la pancia, e perché nessuna foto di bambino biafrano (era l’epoca in cui se ne vedevano molte: la fame nel mondo era la buona causa per eccellenza, stava agli anni Ottanta come i transessuali a questo decennio) mi aveva fatto capire che la pancia e la dieta hanno poco a che fare. (La mia pancia non aveva ragioni biafrane: era mancanza di tono muscolare – ero inappetente ma già pigrissima – ma ero troppo fessa per capirlo, o troppo pigra per risolverla).
Sono stata una ragazza sempre a dieta. Ho amiche che non hanno mai smesso, e ora si trovano in casa la nemesi: figlie adolescenti cresciute nell’epoca di «ogni corpo è bello a modo suo» (era meglio quando le riviste femminili ci mentivano promettendoci un percorso per arrivare in un mese a un «corpo da spiaggia», menzogna per menzogna).
Si sono private di tutto per entrare in una 40, hanno guardato con raccapriccio ogni minimo bozzo di cellulite sulle chiappe di attrici perlopiù perfette, e ora la loro prole vuole convincerle che Lizzo o Cara Delevingne pari sono. Povere.
Laura Lippman è una giallista sessantunenne. L’anno scorso ha scritto un personal essay, come gli americani chiamano le cose che scriviamo noialtre che scriviamo dei cazzi nostri, sul suo avere avuto una figlia in tarda età, perché il marito (lo sceneggiatore David Simon, quello di “The Wire” e del “Complotto contro l’America”) ci teneva, e «lui stacca gli assegni e io faccio succedere le cose».
Non avevo mai letto un suo giallo, ma il suo è stato il primo (e l’ultimo) saggio sulla maternità che abbia trovato interessante. Ho pensato che avrebbe dovuto scrivere più roba così, e non sono stata l’unica a pensarlo. In America è appena uscita una raccolta di questi suoi saggi, “My Life as a Villainess”.
Il primo s’intitola “The Whole 60”, crasi tra una dieta che ovviamente ho provato (le ho provate tutte, prima di smettere), “The Whole 30” (trenta giorni senza niente d’industriale, senza zuccheri, senza alcol, senza farina: «certo che funziona», chiosa Lippman, se levi tutto per forza dimagrisci), e i sessant’anni che sono l’età alla quale Lippman dice d’essersi stufata di star dietro alla magrezza.
Ho visto molte foto di Lippman. S’immortala spesso mentre prova vestiti che mise in grandi occasioni della sua vita. Se siete adulti sapete già cosa significhi: nessuno che entri in vestiti dei decenni passati è davvero ingrassato. Come tutte le grandi raccontatrici del sé, Lippman bara.
Bara anche quando dice una cosa sacrosanta, cioè che bisogna liberarsi dalla fissazione d’essere scopabili. È vero che l’unico serio segno d’adultitudine è riporre quello strumento giovanile che è la seduttività, ma nessuna cerca la magrezza per gli uomini (che peraltro, quando una si smutanda, non sanno più che taglia porti o come si chiami).
Mentono anche quelle che «lo faccio per me stessa»: cosa vivete, in una casa foderata di specchi? Vogliamo essere magre per fare invidia alle amiche, perché nessuna possa dire «ma l’hai vista come s’è ridotta» quando ci allontaniamo, perché i vestiti ci caschino meglio. Vogliamo essere magre finché non scopriamo l’universo felice dei pantaloni con l’elastico.
La storia di copertina del New York Times Magazine naturalmente parla di molto altro, come accade nei posti in cui scrivere di moda è una cosa seria. Di come (e se) l’industria sopravviverà a una stagione in cui è inconcepibile che le sfilate si svolgano come prima (chissà se lo leggeranno gli alberghi milanesi, che hanno prezzi proibitivi per l’ultima settimana di settembre perché contano sulla clientela della settimana della moda: illusi).
Della scomparsa del mercato medio ovunque, dal cinema alla moda, restano solo la stranicchia o le multinazionali. Delle differenze tra le collezioni che uno stilista manda nei propri negozi monomarca e quelle che vende nei grandi magazzini del lusso. Dell’iperproduzione fatta per occupare più metri quadri con la propria etichetta nello spazio condiviso dei negozi multimarca (succede lo stesso coi libri, almeno in Italia).
Dello stilista che, mentre gli altri chiudevano boutique e licenziavano dipendenti, forse si salverà perché ha capito cosa il mercato voglia da lui: roba comoda (slogan: “roba in cui vivi”). Di Marc Jacobs passato in sette anni da 250 a 4 negozi. Di Burberry che nel 2018, per non far svalutare il marchio mettendo in saldo l’invenduto, fa incenerire 37 milioni di dollari di accessori (è anche un grande spunto per una commedia nera su un giro di cremazioni clandestine).
Dell’ipotesi di reversibilità: si torna indietro dai pantaloni con l’elastico? Torneremo a comprare roba scomoda, girovita stretti, reggiseni col ferretto, scarpe col tacco?
Se si cerca su Google “sweatpants nytimes”, si noterà che il tema è ricorrente. Nell’inverno 2018, una cronaca delle sfilate riportava la gran moda dei pantaloni con l’elastico. Due settimane prima, un commento di costume criticava la moda dei pantaloni da yoga (con l’elastico, ma stretti) perorando invece la causa dei sweatpants (larghi, comodi).
Nel 2016 si raccontava come alcuni stilisti avessero disegnato pantaloni da uomo eleganti ma con l’elastico. A maggio di quest’anno, intervistando milionari in clausura agli Hampton, si riportavano le angosce di signore che spesso non uscivano dai sweatpants fino alle quattro di pomeriggio (la vita adulta è decidere di stare comode ben oltre le quattro).
Ricordo bene gli anni in cui i pantaloni con l’elastico divennero di moda. Una tizia californiana (sposata col sogno erotico della mia preadolescenza, il bassista dei Duran Duran) mise addosso a tutte le attrici le tute di ciniglia da lei prodotte, a marchio Juicy Couture. Ne possiedo ancora alcune, che si scuciono se la me che ha smesso di pesarsi prova a infilarsele: sono di ciniglia, un tessuto che puoi permetterti solo se pesi un chilo da bagnata.
A parte l’eccezione Juicy, la comodità dell’elastico fa passare l’esigenza di sborsarti la pancia dal bottone, come facevi coi pantaloni normali. Ed è perciò che io tifo Jerry Falwell jr.: cristiano evangelico, cospirazionista del virus, sostenitore di Trump, e tutte le impresentabilità possibili.
Ieri Falwell era il capro espiatorio dei moralizzatori, non per le caratteristiche elencate, ma per aver messo su Instagram una foto in cui tiene una mano sul punto vita d’una ragazza, assistente della moglie. Già gravissimo, converrete. In più, sia lui sia la ragazza hanno pantaloncini sbottonati.
Lei, ha spiegato lui, è incinta, e non riusciva a tirar su la lampo. Così anche lui si è slacciato i suoi, per solidarietà e perché aveva mangiato troppo. Servisse un’altra scusa per iscriversi al partito dei pantaloni con l’elastico: se Falwell e la ragazza li avessero indossati, ci saremmo risparmiati una delle cento indignazioni che consumano la nostra attenzione sui social.