“Siamo stati capaci, noi reduci, di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza?”, si chiedeva Primo Levi nel 1986 nel suo “I sommersi e i salvati”. Comprendere, spiegava Levi, coincide inevitabilmente con semplificare: non c’è comprensione senza la possibilità di ridurre la confusione del reale a uno schema. È quello che facciamo anche con il caos della storia, ma se “questo desiderio di semplificare è giustificato, la semplificazione non sempre lo è”. In questo modo Levi apriva le sue riflessioni sulla zona grigia, quella categoria di vittime che nei campi di sterminio potevano esercitare potere su altre vittime e che facevano saltare qualsiasi netta e rassicurante distinzione tra criminali e oppressi, buoni e cattivi.
Il tedesco Karl Schwarz apparteneva alla zona grigia dei civili tedeschi, che non appoggiarono il nazismo in modo entusiasta ma neppure vi si opposero, i Mitläufer, cioè quelli avevano “camminato con la corrente”. Cercò di trarre dalle circostanze il massimo vantaggio per sé e la propria famiglia, senza infrangere la legge, senza fare direttamente del male a nessuno. Nel 1938 rilevò una piccola azienda di prodotti petroliferi di un ebreo a cui era stata espropriata, pagandola molto meno di quanto valesse. Quando l’ex proprietario, unico sopravvissuto della sua famiglia, dopo la guerra tornò a rivendicarne il possesso, nonno Schwarz rifiuterà per anni di indennizzarlo. Alla fine cederà, ma l’episodio sarà nascosto e rimosso dalla memoria familiare.
La giornalista franco-tedesca Géraldine Schwarz, nipote di Karl, parte da questa scoperta e dall’indagine nella propria famiglia per scavare e raccontare i milioni di tedeschi che, in clima di apatico conformismo, semplicemente seguirono la corrente, si avvantaggiarono dello sterminio portato avanti da altri, e a posteriori non tornarono mai a riflettere sulle loro scelte.
Il suo “I senza memoria. Storia di una famiglia europea”, vincitore del Prix du livre européen nel 2018, è un saggio giornalistico e storico, un esame di coscienza che analizza anche le ripercussioni che la mancata riflessione sul proprio passato, familiare e collettivo, non solo in Germania, ha nelle cronache politiche europee di oggi: dal populismo al razzismo.
Il diritto di interrogare il passato con un approccio manicheo e morale è uno dei temi che agita giornali e piazze in queste settimane: si coltiva così la memoria?
La grande sfida quando si decide di scrivere del passato è essere onesti con i suoi protagonisti, quindi ovviamente non applicare su di loro gli standard morali e sociali di oggi. Quindi bisogna contestualizzare, e per farlo bisogna conoscere la complessità del contesto storico, che significa conoscere moltissimo, perché il diavolo si nasconde spesso nei dettagli. Ad esempio, nel caso dei miei nonni tedeschi durante il Terzo Reich: era possibile dire di no? a quali rischi? in quale caso? in che momento? Quanto conoscevano il destino degli ebrei? Qual era il loro livello di educazione politica?
Infine c’è la dimensione psicologica. Come reagisce un individuo in mezzo alla folla? Come può essere un crimine seguire la corrente? Che impatto hanno il conformismo, l’opportunismo di un individuo – nel caso di mio nonno l’opportunità di acquistare un’attività ebraica a buon mercato – sulla società? Da non dimenticare anche l’analisi della manipolazione politica: indottrinamento, propaganda, menzogne, messa in scena estetica del potere, parate festive, nel caso di mio nonno i sussidi per le crociere in Norvegia… Spesso dimentichiamo che il nazionalsocialismo ha fatto sognare molti tedeschi.
Su “Il Guardian” ha scritto che “per fare in modo che il passato ci aiuti a migliorare il nostro presente, non è sufficiente additare alcuni colpevoli della storia e abbattere le loro statue”. Qualcuno potrebbe rispondere che non è sufficiente ma necessario.
In alcuni casi capisco la rabbia e la rimozione di alcune statue, come quella di Leopoldo II in Belgio, ma in generale è controproducente. L’iconoclastia spesso è solo un’illusione di giustizia, preludio dell’oblio. Ciò che resta è solo un’opportunità persa di usare il nostro passato per conoscerci meglio. Questi gesti innanzitutto negano il contesto storico e le sottili sfumature dei personaggi incriminati, che spesso non sono né completamente cattivi né completamente buoni. Rimuovendo le statue si cancella la memoria, mentre quello che serve è fare un lavoro di memoria che ci permetta oggi di vivere meglio. Altrimenti si alimenta un pensiero settario, monolitico, odioso, che finisce per favorire ciò che si pensava di combattere.
Il sottotitolo del suo libro è “Storia di una famiglia europea”. Quante crede che siano le famiglie europee come la sua?
La violenza del XX secolo in Europa ha lasciato il segno in quasi tutte le famiglie europee. In questo senso, la mia storia familiare è rappresentativa di una normale famiglia europea. Nel 1900 – Stefan Zweig lo descrisse magnificamente in “Il mondo di ieri” – l’Europa era all’apice della sua influenza. Artisti e intellettuali hanno incarnato un nuovo ideale europeo, l’idea di una comunità di valori e cultura transnazionali ha guadagnato terreno. Di conseguenza, la prima e la seconda guerra mondiale furono vissute come guerre fratricide e scossero profondamente i contemporanei ma anche la generazione del dopoguerra: in tutta Europa, occidentale e orientale.
Il mio libro è tradotto in una dozzina di lingue e penso che questo interesse derivi dal fatto che molti si identificano con la mia storia familiare, con questa difficoltà nel fare un lavoro di memoria all’interno delle famiglie, indipendentemente dalla nazionalità. Questa identificazione è tanto più facile in quanto mio nonno tedesco aveva una posizione molto ordinaria: non fu carnefice, vittima o eroe, ma Mitläufer, seguì il flusso dell’opportunismo, del conformismo. Questo era l’atteggiamento della stragrande maggioranza dei cittadini europei durante la guerra: la sua gravità tuttavia variava a seconda della gravità dei crimini che questo atteggiamento favoriva o permetteva.
La particolarità della mia famiglia è anche che mio padre è tedesco e mia madre francese, il che penso mi permetta di guardare a entrambi i paesi – e forse all’Europa in generale – in modo diverso rispetto a un cittadino cresciuto nella cultura di un solo paese.
Scrive che la mancanza di memoria – familiare e collettiva – è uno dei motivi che hanno portato al populismo e al razzismo. Lo scrittore e storico David Bidussa, commentando il suo libro, ha scritto che è molto ottimista: “Quando qualcuno dalla curva di uno stadio auspica per qualcun altro che la sua prossima destinazione sia Auschwitz, lo dice non perché non sa cosa sia accaduto là, ma proprio perché lo sa”.
Il problema per l’Europa oggi non è che dimentichiamo “quello che è successo” ma “come è stato possibile”. Non perdiamo la memoria dei crimini ma perdiamo la memoria della nostra fallibilità di cittadini. Nel mio libro scrivo che il solo ricordare Auschwitz e indignarsi per i “mostri” che hanno commesso o ordinato quei crimini non è sufficiente. Bisogna chiedersi: chi è responsabile? Per molto tempo la risposta è stata facile: i nazisti erano responsabili di tutto, e l’Italia ne ha approfittato per far dimenticare i propri crimini efferati.
Poi, quando la ricerca storica ha rivelato la portata delle collaborazioni europee, gli stati europei si sono alternati facendo il loro mea culpa. Ma a ciò non è sempre seguita una consapevolezza tra la popolazione delle proprie responsabilità storiche, la responsabilità di un numero incalcolabile di cittadini europei che con la loro apatia, la loro cecità ideologica, la loro indifferenza, il loro conformismo, il loro opportunismo hanno creato le condizioni necessarie al crimine istituzionalizzato e, infine, ad Auschwitz.
Questa domanda è essenziale se vogliamo davvero imparare dalla storia, perché ci riporta alle nostre responsabilità di oggi. Alle nostre contraddizioni e alle conseguenze delle nostre azioni, di cui siamo felici di restare all’oscuro, ad esempio quando compriamo un capo di abbigliamento a buon mercato realizzato da bambini in Asia o quando votiamo per un partito politico che minaccia la democrazia, cioè la libertà dei nostri figli.
L’odio, l’irrazionalità e la paura non sono inevitabili. Si tratta di meccanismi socio-psicologici che possono essere compresi per poterli identificare, demistificare e combattere con una solida educazione politica attingendo sia alla psicologia che alla storia. In Germania, il cosiddetto “lavoro della memoria” è in realtà una forma di educazione politica che trasmette un senso di responsabilità e vigilanza nei confronti dei partiti politici demagogici e di chi incita all’odio.
Perché una democrazia funzioni, i cittadini devono essere soprattutto capaci di giudicare, di formarsi un’opinione, di essere onesti. Altrimenti diventano i burattini di partiti politici pericolosi per la democrazia e la pace. Non è un caso che questi partiti siano in generale i nemici della memoria e dell’educazione: senza di esse è più facile manipolare i cittadini.
Memoria però è anche l’ingenua nostalgia di sua nonna per il tempo di Hitler, il culto del passato di neonazismi e neofascismi. Anche la memoria è terreno di scontri.
Quando parlo del “lavoro” della memoria, questo implica un confronto onesto con il passato, e non ovviamente una strumentalizzazione della memoria per suscitare odio e revanscismo, come fece Milosevic nell’ex Jugoslavia, o per glorificare il passato, come fa Vladimir Putin minimizzando i crimini sovietici e stalinisti. Proprio il lavoro della memoria è essenziale per occupare la terra del passato, perché se quella terra si svuota, qualcuno ne approfitterà per riscrivere la storia, di solito per scopi politici.
Quando la memoria privata o sociale è troppo dolorosa, esiste un “diritto a dimenticare”?
Ovviamente le vittime hanno il diritto di dimenticare, i sopravvissuti all’Olocausto lo hanno affermato subito dopo la guerra; ma in generale, per superare i traumi, è meglio parlarne. Dall’altra parte, la società non ha il diritto di dimenticare. A volte può essere saggio aspettare che sia trascorso un breve periodo dopo la fine di una dittatura o di una guerra civile prima di tornare indietro nel passato, poiché le ferite e le tensioni sono ancora troppo acute. È stato il caso della Spagna subito dopo la morte di Franco nel 1975.
La Spagna tuttavia non solo ha aspettato un po’, ma ha deciso di dimenticare i crimini inauditi del regime franchista e ha approvato una legge di amnistia, vietando qualsiasi processo. L’impunità è stata la più totale: nessun processo, nessuna riflessione sul ruolo di ciascuno in questo regime criminale, i parenti delle vittime abbandonati al loro destino, a scavare da soli nel terreno per trovare i resti dei cari gettati in fosse comuni. Questo fallimento nell’affrontare il passato ha conseguenze evidenti oggi: una società divisa e un partito neo-franchista in ascesa. La democrazia spagnola è giovane. Ma senza memoria, non esiste democrazia solida.
Quando il progetto europeo è iniziato, alcuni paesi non avevano ancora avviato un lavoro sulla memoria e alcuni, scrivi, non lo hanno ancora fatto. Le antiche ostilità tra paesi europei non vengono risolte perché sono state dimenticate e non affrontate proprio all’inizio della costruzione del progetto europeo?
Al contrario, il progetto europeo è nato dalla memoria, poiché è nato dal trauma delle guerre mondiali. Gli europei, quasi tutti, hanno accettato di dire: mai più! Si doveva fare tutto il necessario per evitare la ripetizione dei massacri della prima metà del XX secolo e per prevenire qualsiasi nuova guerra tra europei. Da questa idea nacque nel 1951 la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, che in realtà mirava a controllare la costruzione dell’industria pesante e quindi degli armamenti tedeschi, per evitare che la Germania diventasse di nuovo un pericolo per i suoi vicini europei. L’accordo per introdurre la RFT nella NATO nel 1955 aveva lo stesso obiettivo di controllo.
L’amicizia franco-tedesca, motore importante dell’Europa, è stata costruita proprio sulla memoria delle conseguenze catastrofiche dei loro conflitti passati e non sull’oblio. Infine, tutti i valori che l’Europa promuove sono motivati dalla memoria della violenza del XX secolo: democrazia contro il modello autoritario, libertà contro l’oppressione, pace contro la guerra, tolleranza contro la discriminazione che può arrivare fino all’omicidio.
L’evoluzione del progetto europeo è molto saldamente ancorata alla memoria e dovrebbe consentire il mantenimento della pace inquadrando paesi con una democrazia ancora fragile, come all’inizio la Germania e l’Italia o più tardi il Portogallo, la Spagna e la Grecia dopo la caduta delle loro dittature.
Oltre al mancato lavoro sulla memoria, la mancanza di empatia è l’altro pericolo che vede nelle nostre società. D’altra parte, il sentimento di empatia e esasperata partecipazione emotiva è utilizzato e strumentalizzato anche dalle politiche populiste. Non pensa che la razionalità, piuttosto che l’empatia, sia la grande assente nella politica e nella società contemporanee?
L’empatia di cui parlo è la capacità di mettersi nei panni di chi soffre. Potrebbe essere il rifugiato che muore in mare ma anche la ragazza violentata da un rifugiato. Quando i partiti populisti o estremisti parlano di empatia, di solito serve a strumentalizzarla per fini politici, a stigmatizzare un gruppo – tutti i rifugiati che diventano potenziali stupratori per esempio – e a incitare all’odio. Queste persone sono abituate a falsificare il significato delle parole, quindi nelle loro bocche la parola empatia vale quanto la parola democrazia e libertà: è una bugia. E di fronte a questa manipolazione, bisogna educare i cittadini per metterli nelle condizioni di identificarla, sviluppare la loro capacità critica e quindi anche la loro ragione.
La ragione è essenziale, ma da sola non basta. I lumi, basati sulla ragione, non hanno impedito le barbarie del XX secolo, né altrove è bastata la cultura. Una delle società più moderne e colte del mondo agli inizi del secolo scorso, la Germania, è scivolata nella barbarie. Il baluardo più forte è l’empatia: è una base essenziale dell’umanesimo. E l’umanesimo non è solo un valore morale, è una guida alla sopravvivenza. Il XX secolo ci ha mostrato di cosa è capace l’uomo quando cessa di essere umano: si distrugge. Iniziamo rimuovendo un gruppo per il colore della sua pelle, la sua religione, le sue origini, la sua classe sociale e poi il cerchio si allarga man mano che cadiamo nella follia e nella paranoia, e alla fine porta al suicidio di un’intera civiltà.
La solidarietà che le giovani generazioni hanno dimostrato con le più anziane durante la pandemia di Coronavirus ci ha ricordato questo imperativo che deve guidare le nostre decisioni e azioni. La nostra umanità non solo dà significato alle nostre vite, ma le protegge. Domani, di fronte alle tante sfide che ci attendono – climatiche, epidemiche, autoritarie o di altro tipo –, la nostra sopravvivenza dipenderà tutta dalla nostra capacità di restare umani. Questo è il miglior argomento che abbiamo contro coloro che sostengono modelli autoritari di uomini “forti”. Uno slogan delle SS era “l’empatia è una debolezza”. La storia ci ha mostrato dove conducono gli “uomini forti” del fascismo: alla rovina di tutti.
Come contrastare gli intolleranti? La censura nei loro confronti è efficace o un sintomo di debolezza?
In generale, dobbiamo evitare di alimentare il mito della vittimizzazione degli estremisti, che è al centro della loro strategia. Per coltivarlo ricorrono alla provocazione, e più la nostra reazione risponde ai cliché, più emergono trionfanti da questo gioco di ruolo – “loro” contro “noi”. Vestono i panni di paladini della libertà di opinione con il coraggio di dire verità proibite che in realtà sono solo valanghe di odio e denuncia. Diventano i salvatori delle persone i cui bisogni e volontà sarebbero gli unici a capire.
Per combatterli, dobbiamo rompere il loro mito mettendo pubblicamente i leader populisti di fronte alle loro contraddizioni e alle loro bugie. Per questo bisogna essere ben preparati, come politici, giornalisti, rappresentanti della società civile. Bisogna essere in grado di rispondere onestamente alle legittime preoccupazioni delle persone che stanno cercando di reclutare: identità, Islam, rifugiati, globalizzazione, disuguaglianze sociali. Ma bisogna anche sapere come tracciare una linea rossa: rifiutare apertamente il dibattito quando ci troviamo di fronte a cospirazionismo, teorie razziste, quando l’opinione lascia il posto all’odio. E fare attenzione a non fungere da piattaforma che trasme queste idee. Non dimentichiamo che il modo più sicuro per combattere il populismo resta quello di dare ai cittadini i mezzi per esprimersi e per partecipare, ma anche per forgiare una cultura politica e democratica.