Canto ma sono taciturno. Come la sera in cui per tutta la sera ossia per sempre ti amai. A proposito di essere chiaro, io qui sono chiaro e tondo ma nessuno capirà, solo tu. Tondo come un pianeta, chiaro come una stella. Anche tu pianeta, anche tu stella: una soddisfacente catastrofe cosmica se questi due pianeti, se queste due stelle impattassero seguendo la traiettoria del loro destino e nel rispetto delle leggi di gravità e attrazione.
Ora accade che – l’ho imparato quella sera – il destino noi lo evitiamo, intendo noi due, noi due umanità. Per destino intendo il cambio della vita in altra vita. Per altra vita intendo: lasciateci soli, soli per sempre. Si può? Non si può. Sì, l’altra vita in questa, l’altra, sì, l’altra, non questa (e con “questa” intendo…), l’altra è la nostra vita. Terrena, certo, con i piedi sulla terra, anzi sull’erba quella sera, quasi nella terra come due piante accostate, coi rami che si intrecciano e si legano.
Sei taciturna come me, tu. Così in piedi, fianco a fianco, quasi fermi, facevamo prove d’avvenire, e volli stringerti la mano, forte, e tu pure stringesti la mia, forte, e le guardammo, le mani, le dita tra le dita come fossero le nostre arborescenze. Starei fermo con te per tutta la vita, non questa: l’altra. Non questa, e con “questa” intendo la presente, intesa anche come lettera, questa “con questa mia”, queste mie parole, scritte da lontano, parole e vita, ora lontane da te.
Questa vita (questa per chi legge e ormai per me) è quella nella quale con le nostre parole non facciamo che comunicare e essere comunicati come in un confessionale ricavato da un gallinaio, e informare e essere informati come in una disorientata colombaia in piena tempesta magnetica, questa vita che non so come dirla, diciamola sciattamente conigliera sociale, questa vita che non è destino.
Esiste, quindi, il destino? Sì, esiste, a un certo punto appare chiarissimo in questa vita, il destino, che è uno, non è il tutt’altro da fare di ogni giorno quando ogni compito, sì, compito nella nostra elementare scuola di vita, fosse anche un obbligo, un dovere, un lavoro, una occupazione, fosse anche vaghezza e svagatezza, spensieratezza, passatempo, quando tutto questo è tutt’altro ma non mai destino, quindi non è.
Non so se mi spiego, ma non voglio spiegare a me, proprio a me, quel che so: che il destino è uno e lo evitiamo. Avrei dovuto restare. Restare è il verbo giusto, il verbo del destino, che ti dice “resta”, ma non nell’uso opportunista e così poco fermo di questo verbo vile nella vita. Resta ossia sta’, stai, tu, seconda tua persona in tempo imperativo (quando ti parli è vero o no che l’altra tua persona, la seconda, diventa in te la prima?).
Esiste un tempo dalla fermezza imperativa? Esiste. “Stare” all’infinito è il tempo più vicino all’infinito che noi possiamo conoscere. Insomma, stare per sempre, per quanto riusciamo a farlo durare il nostro sempre. Capisco adesso tutti i miti metamorfici, li invidio, i miti direi scultorei, nei quali si racconta di viventi mutati in statue.
Amanti in concrezione, in un tutt’uno, sì: noi due. Che non è il modico, appena appena tollerabile, passar la vita insieme in questa vita ma trapassar nell’altra sopra questa terra, come carne nella pietra dura di un amore, posati come sulla terra è posato un gruppo scultoreo, che sta. Capisco anche che è umanamente impossibile credere nel destino, capisco quanto è conveniente non crederci, non credere a un destino, che è uno contro tutto, e esige l’addio a tutto, alla socievolezza, ai nostri campanacci al pascolo in concerto, ai momenti di questo e di quest’altro, alle frequentazioni, alle condivisioni, alla partecipazione risibile.
Ah, l’ebete sorriso dei partecipanti al jazz e alla cosa pubblica. Soli per sempre non si può, è terribile la consapevolezza che un destino esiste e non lo puoi, non posso, non possiamo seguirlo, non possiamo restare soli in due per sempre. È così che evitiamo l’inevitabile. E conosciamo quel sentimento che alla perdita dell’evitato destino si accompagna o da esso si scompagna: il rimpianto, sentimento difficile e scandaloso, imbarazzante. Uno solo è il rimpianto: di quel che non potrà (potrà è un futuro) essere, non di quel che è stato e non è più.
Esiste un destino che non sia amoroso? No. Per tutto il resto che non sia l’amore va bene il caso, va bene, o male, tutto quel che capita, e quel che capita è la vita, questa vita tollerabilmente variabile, che contrasta l’altra, unica e sola, ferma, perfino intollerabile come è quasi insopportabile la bellezza, che è unica e sola e ferma, perché la bellezza è ferma, piena di fermezza (altro che la volubile finzione leziosa di invocarla).
Va detto, però, che non è del tutto perduto quel destino, è in noi in segreto come marmo nel marmo, così in qualche modo noi siamo statuari, statuari dentro, si potrebbe dire. Ci resta l’estremismo ossia la fantasia (sfoghiamo o no con la fantasia la nostra natura estremista?) dell’eterno abbraccio assurdo, eterno perché assurdo, il nostro più screanzato attacco al mondo, forse l’aspirazione, l’ambizione anzi, che dall’infanzia a oggi, tenace, non ci ha mai abbandonato né l’abbiamo abbandonata né l’abbandoneremo durante il corso della nostra, a tutti ignota, vita cospirativa: evadere abbracciati via dal mondo (quel che non possiamo lo possiamo almeno esagerare).
Ecco che canto ma sono taciturno, come quando ci incontrammo e ti dissi, non so con quale voce, “anche tu come me sei taciturna”. Distanziamento? Ma per favore. Non abbiamo saputo approfittarne. Distanziamento dal mondo ossia l’innamorarsi. Lo sfiorammo già quando in principio ci sfiorammo fingendo di non accorgercene perché non se ne accorgesse il mondo, un buon inizio.
Poi ci affiancammo come due che fan tutt’uno per guardar lo stesso punto: noi storditi da noi stessi, dalla vista di noi per sempre altrove, solo noi. Taciturni come alla vigilia di una evasione, la nostra, via dal mondo. Il corpo sa già tutto, tace, la mente poi, chiassosa, provvede a scombinare.
Non seguì la notte a quella sera, ci siamo dati il buon viaggio in questa vita, e un bacio sulle dita, le mie, vili, da me baciate e, offerte alle tue labbra, poi da te. Spero che tu mi abbia condannato. Per sempre, che è già qualcosa: è comunque un per sempre tutto nostro. Così io torno taciturno a cantare di te come qui e come, appunto, sempre. Con queste mie: mie parole e mia vita da lontano.