Pubblichiamo la terza di cinque puntate di un articolo di Giovanni Cagnoli che uscirà sul numero dell’Avanti in edicola a inizio settembre. Qui la seconda.
La mancata crescita è stata l’anello debole della politica economica italiana negli ultimi 30 anni. I tassi di crescita sono stati i più bassi in Europa. Non si è per nulla beneficiato dello straordinario bonus interessi sul debito pubblico che l’euro ha permesso. Il populismo elettorale nei fatti non ha fatto pressoché nulla per agevolare lo sviluppo inserendo voci di spesa nel bilancio per privilegiare questo o quel settore (dall’edilizia agli elettrodomestici, alle auto, all’arredamento) senza nessuna vera politica di stimolo al lavoro e alla produttività.
Partiamo da un presupposto semplice e matematico. Lo sviluppo economico dell’Italia avviene solo aumentando la partecipazione al lavoro e aumentando la produttività del lavoro stesso. È una semplice moltiplicazione che chiunque può capire. Devono lavorare più persone e ciascun lavoratore deve essere più produttivo.
La partecipazione al lavoro può aumentare tangibilmente al sud dove è bassissima rispetto agli standard europei, e nella componente femminile anche questa minima in Europa. Quindi è evidente che devono essere poste in atto politiche di incentivo al costo del lavoro su base territoriale (sud) e politiche di supporto attivo all’occupazione femminile come investimenti su asili nido e sulla scuola.
Il tema del sud Italia è particolarmente spinoso perché la creazione di posti di lavoro al sud in assenza pressoché totale di una visione economica del territorio appare problematica.
A mio avviso le due direttrici fondamentali son0 l’agroalimentare e il turismo che potrebbero rappresentare fonti di lavoro e di sviluppo importanti. Il sud ha un vantaggio competitivo su tutto il resto d’Europa in termini di clima e di potenziale ricettività. La visione della Florida per l’Europa non è per nulla stravagante. Ma bisogna incentivare il controllo del territorio e la sicurezza, la ricettività, il turismo e la sanità intesa come qualità delle strutture per attrarre turismo di anziani dall’estero.
Un tema molto rilevante che inizia e essere ricordato (per esempio dal sindaco di Milano Beppe Sala) è l’utilizzo di salari differenziali tra nord e sud, vero e proprio anatema per molte sigle sindacali quando se ne parlò 10 o 20 anni fa. Peraltro qualsiasi economista che abbia studiato potrebbe facilmente dire che in presenza di elevata disoccupazione e bassa produttività, ma con il vincolo della moneta unica, l’unica strada per incentivare lavoro ed evitare emigrazione massiccia è la riduzione del costo del lavoro che può avvenire riducendo contributi sul lavoro stesso con onere dello Stato e/o riducendo i salari.
Quello che non si dice quando queste proposte vengono quasi criminalizzate è che non fare nulla significa costringere i cittadini del sud a una massiccia emigrazione. Questa emigrazione coinvolge chiunque abbia migliore educazione e possibilità di reddito, scatenando quindi un ulteriore impoverimento del territorio. I dati negli ultimi dieci anni sull’emigrazione di lavoro qualificato da sud a nord o peggio all’estero sono impressionanti, ma nessuno ne parla specie nel sindacato, nonostante il costo umano e sociale di questo fenomeno sia molto più elevato e ingiusto di qualsiasi gabbia salariale. I colloqui di lavoro con laureati brillanti al sud sulle loro aspettative e prospettive è un esercizio disarmante che mette in luce quanto sia da loro ormai conclamata la assoluta impossibilità di uno sviluppo di carriera nei loro luoghi natali, vicino alle loro famiglie.
Anche in questo caso la mia visione sul ruolo dello Stato non è l’investimento diretto ma forti incentivi anche a fondo perduto per privati che intendano investire per creare lavoro al sud. Creare una struttura turistica di qualità è il miglior investimento possibile e il costo per unità di lavoro creato nei prossimi 20 anni pari a una frazione molto piccola rispetto a follie in stile Alitalia o necessità imprescindibili come Ilva. Sarebbe importante iniziare a pensare e a rendere pubblico il costo a carico dello Stato per unità di lavoro creata nel tempo. Per Alitalia ad esempio gli ultimi 3 miliardi probabilmente salvaguardano per 3-5 anni non più di 2.000 posti di lavoro perché senza Alitalia le rotte economicamente sostenibili verrebbero rapidamente riprese da vettori più forti. Il costo per posto di lavoro è strabiliante. Il calcolo per un albergo di qualità al sud porta a risultati molto diversi.
La produttività del lavoro è un tema altrettanto complesso e ineludibile. Le cause della bassa produttività sono numerose , dalla scuola, alla dimensione delle imprese, alla mancanza di leadership italiana in settori di sviluppo moderno. Nessuna di questa ha un “quick fix” cioè una soluzione immediata e potente. Credo invece si debba andare su una politica di piccoli passi articolata su queste direttrici:
1-Facilitazione degli investimenti. Industria 4.0 è forse il migliore provvedimento degli ultimi 20 anni prontamente cancellata a favore di quota 100 e reddito di cittadinanza. Una vera e propria follia.
2- Facilitazione delle aggregazioni aziendali e della capitalizzazione delle imprese. Penso all’ace o a misure che possano agevolare fusioni o crescite dimensionali delle aziende.
3-Creazione di un sistema di agevolazione fiscale a favore dei dipendenti su incrementi consuntivati di produttività. Detassare bonus per raggiungimento di obiettivi di produttività mi sembra una misura costosa in termini di base imponibile, ma di stimolo congiunto a imprese e lavoro per un incremento concreto di produttività anche sulla base di idee di miglioramento generate dalla componente lavoro più che capitale nelle imprese.
4-Forte investimento sulla scuola secondaria e sull’università per creare condizioni di vero accesso al lavoro dei nostri giovani.
5-Scelte di politica industriale coerenti con le “carte in mano” al paese. Per esemplificare credo che alcune industrie o settori siano de facto “persi” mentre su altri si deve puntare. Ancora una volta turismo, agroalimentare, moda/lusso e meccanica sono le nostre aree di punta in Europa e nel mondo. Inutile pensare di fare tutto. Dobbiamo ahimè scegliere dove puntare ben sapendo che qualcuno sarà scontento e protesterà, ma non abbiamo risorse per fare politica industriale in ogni settore. Questo significa incentivare in modo massiccio lo sviluppo in questi settori con aiuti agli investimenti, ben consci che qualche aiuto andrà sprecato a fronte di molti altri che invece creeranno lavoro, produttività e sviluppo, e ben consci che i settori meno incentivati strilleranno e faranno lobby pesantissima. Governare significa decidere, non accontentare tutti indiscriminatamente, specie se non ci sono soldi per farlo.
6-Infine ultimo ma non meno importante punto, bisogna rivedere a base zero la spesa pubblica tagliando in modo secco, doloroso in alcuni casi ma ineludibile i mille rivoli di spesa pubblica non produttiva. Si deve analizzare l’impianto delle deduzioni fiscali (tax expenditure) in modo drastico eliminandone una buona parte, si devono analizzare i rivoli di spesa elettorale per iniziative anche interessanti ma di nessun rilievo reale basate su clientelismo locale o elettorale. Il festival della lana, o la sagra dell’uva o il teatro delle marionette (esempi inventati di sana pianta) non possono e non devono essere finanziati dallo Stato, specie se questo finanziamento è fatto a debito. Assistere ad ogni finanziaria alla pioggia di emendamenti di spesa è la fotografia plastica delle motivazioni del nostro immane debito pubblico. Semplicemente non ci possiamo più permettere di sprecare soldi. Bisogna dirlo e soprattutto farlo e penalizzare invece di premiare i politici che fanno della spesa clientelare il loro biglietto da visita.
3. Continua