«Il mestiere più vecchio del mondo ha bisogno del vostro aiuto»: così recitava uno dei cartelli esposti da un sex worker nei giorni scorsi ad Amburgo, durante proteste che hanno coinvolto alcune centinaia di lavoratori del distretto a luci rosse della città anseatica, la Reeperbahn.
In un Paese che sta sempre più tornando alla normalità, pur con tutte le cautele del caso, c’è un settore che fa eccezione, e che continua a rimanere completamente off limits come se il lockdown non fosse mai finito: quello del lavoro di natura sessuale. Un settore che richiede per definizione un contatto fisico intimo, e che quindi è stato colpito molto duramente dalle restrizioni imposte per limitare il contagio, in particolar modo dal distanziamento sociale.
Bar, ristoranti e centri massaggi hanno potuto riaprire con l’allentamento del lockdown, ma non le strutture dedicate al lavoro di natura sessuale – che, secondo i lavoratori del settore, non presentano in realtà rischi maggiori. L’Associazione federale per i Servizi di natura sessuale (Bundesverband Sexuelle Dienstleistungen, BSD) ha anche scritto una lettera aperta sulla questione, indirizzata a 16 membri del Bundestag che di recente avevano chiesto la messa fuori legge del lavoro sessuale, rendendo l’attuale sospensione permanente.
La prostituzione in Germania, come noto, è legale, ed è regolata da una legge entrata in vigore nel 2002, la Prostitutionsgesetz, che stabilisce il quadro normativo – e fiscale – entro cui l’attività può essere svolta in sicurezza, scongiurando i casi di sfruttamento. Inoltre, dal 2017 vige la Prostituirtenschutzgesetz (legge per la protezione delle persone che si prostituiscono) che prevede l’istituzione di un vero e proprio registro per chi svolge questa attività e il rilascio di un permesso della validità di due anni.
Non sono però mancate le critiche, da una parte e dall’altra. Se come abbiamo visto c’è chi continua a ritenere la prostituzione una cosa intrinsecamente immorale e dannosa per la società, e vorrebbe bandirla una volta per tutte, anche chi lavora nel settore individua nell’attuale quadro normativo alcuni problemi rilevanti: è certo un bene avere una copertura giuridica, fiscale e anche pensionistica, ma la raccolta e la centralizzazione di dati personali in un contesto così delicato e ancora scarsamente accettato socialmente come quello della prostituzione fa temere la compilazione di vere e proprie liste di proscrizione, e una ennesima forma di criminalizzazione di chi svolge un’attività prevista dalla legge. Senza contare inoltre che non è detto che chi si prostituisce intenda farlo sapere pubblicamente.
Non solo: l’associazione francofortese Doña Carmen, che si occupa della protezione dei diritti sociali e politici di chi si prostituisce e ha addirittura fatto ricorso contro la legge alla Corte Costituzionale di Karlsruhe, ha fatto notare la sproporzione fra l’enorme numero di minuziosissimi dettagli che secondo la legge devono regolare l’attività, come ad esempio l’obbligo di usare il preservativo, e il limitatissimo numero di condanne per reati già esistenti, come appunto lo sfruttamento – solo 72 a livello nazionale nel 2015, a fronte di un numero di lavoratori e lavoratrici stimato all’epoca intorno a 200.000.
Va però ricordato che è ragionevole ipotizzare che alcuni abusi ed episodi di violenza non vengano denunciati, e che è molto difficile stabilire con certezza quante siano le persone che si prostituiscono in Germania, nonostante la registrazione – le cifre variano da 33.000 fino a 400.000, e c’è chi parla addirittura di un milione.
Il lockdown ha naturalmente aggiunto un problema in più, e ha spinto tutto il settore del lavoro sessuale a ripensare la propria organizzazione per superare la chiusura totale. Nella lettera ai 16 parlamentari, la BSD ha proposto una serie di misure cautelative per far riprendere le attività in sicurezza anche in questa fase: ad esempio limitare il numero di lavoratori e lavoratrici nelle strutture, oltre che di clienti, e imporre il distanziamento sociale nelle zone comuni e l’uso della mascherina. Prassi ormai comuni in quasi tutti i servizi commerciali dedicati alla cura della persona, come ad esempio i parrucchieri, i saloni di bellezza o gli studi dei tatuatori.
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