C’è in giro un’aria supponente insufflata dai sostenitori del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari che echeggia vecchie idiosincrasie verso le élite, o presunte tali, che si battono per il No.
Lo schemino, un po’ da sezione comunista anni Cinquanta, è semplice: chi è contro di noi coltiva ubbie intellettualistiche sganciate dai bisogni popolari, sfoggia un sapere inutile se non addirittura al servizio della reazione – e magari è prezzolato – ed è comunque destinato alla condanna della Storia.
Il dubbio di una minoranza vissuto come un intralcio o addirittura come masochismo, con sottinteso, e talora esplicito, ammonimento a rientrare nei ranghi: il tono è del Politico contro l’Intellettuale lontano dalle masse.
Tutto molto d’antan. Non siamo molto lontani dal Paolo Bufalini quando, all’epoca del referendum sul divorzio, a proposito dei Radicali sospirava: «Ce tocca vince’ pure pe’ sti stronzi…».
C’è da sperare che il confronto sul taglio del parlamento non scada in una caccia all’élite, quanto più di destra ci possa essere, una anacronistica guerra di religione, con le medesime élite “(borghesi?) additate all’ira popolare: eppure, ad annusare un certo tono assertivo con qualche punta di arroganza, viene il dubbio su una improvvisa regressione, a una risorgenza della retorica contro le minoranze, magari radical chic (ancora non è stato rispolverato l’epiteto di “pariolino” ma è questione di giorni): e poco ci manca che gli stessi parlamentari della sinistra si incolonnino nelle schiere di chi vuole il sangue dei “furbetti” per denigrare quel Parlamento in cui pure siedono pur di vellicare il sempiterno antiparlamentarismo degli italiani.
È da notare poi come nella supponente campagna per il Sì non si valuti minimamente che sulla posizione contraria vi è il fior fiore degli intellettuali di sinistra, molti giuristi (i più tosti contro la riforma costituzionale di Renzi sono però scappati), molti parlamentari, esponenti di punta della costruzione del Partito democratico “prima maniera”.
E, piano piano, molta gente comune che non si lascia abbindolare dall’antiparlamentarismo grillino che è alla base della riforma.
Scrive l’amico sondaggista Paolo Natale che l’esito è scontato, tipo 80-20. Un plebiscito, dunque. Un plebiscito giallo-rosso-verde-nero: già, nessuno dice niente sul fatto che per la prima volta nella storia governo e opposizione voteranno a un referendum allo stesso modo. Una stranezza un po’ sudamericana.
Acutamente ma un po’ furbescamente Claudio Velardi scrive che «in un referendum non devi pensare a chi ti accompagni ma all’obiettivo da realizzare»: suona bene, ma è proprio condividere il medesimo obiettivo con Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Casaleggio junior che dovrebbe preoccuparlo.
A un referendum ognuno vota con la sua testa, ed è persino banale ricordarlo. Ma invece è bene sottolinearlo perché siamo davanti a una evidente militarizzazione in corso a destra e a una certa ritrosia – indotta – a manifestare apertamente un voto per il No, a sinistra.
Nel Pd infatti la posizione per il Sì è espressa stancamente, quasi vergognandosene: e tuttavia non si apre, almeno sinora, una discussione franca. Quanto a LeU, il referendum vede Fratoianni per il No e Bersani per il Sì.
Ultimo segno di un esperimento fallito ma forse anche l’occasione per sciogliere un equivoco. Così l’aria rischia di farsi pesante. Di condurre a una demonizzazione di chi vuole difendere la Costituzione in assenza di una modifica più organica. Di denigrare come “conservatore” chi si rifiuta di accettare una brutta riforma perché meglio di niente: no, grazie, meglio niente.