Il fatto che all’indomani della convention repubblicana, in cui Donald Trump non ha risparmiato nessun genere di deformazione della realtà e demonizzazione dell’avversario, si sia notevolmente ridotto il suo distacco rispetto a Joe Biden, che alla convention democratica ha fatto esattamente l’opposto, evitando persino di nominare il principale esponente dello schieramento a lui avverso, non può non suonare sinistramente familiare a orecchie italiane.
Troppe volte in passato l’elettore di sinistra ha assistito alla rapida scomparsa, nel corso della campagna elettorale, di abissali distacchi disegnati da sondaggisti e giornalisti compiacenti nelle settimane precedenti. Resta da capire se questa dinamica sia da imputare, come molti hanno spesso sostenuto, alle pessime campagne condotte dal fronte progressista, o al fatto che tali abissali distacchi non siano in realtà mai esistiti. Ma non divaghiamo.
Sia come sia, le inquietanti notizie sull’efficacia della strategia trumpiana, fondata sulla plateale negazione della realtà e delle più elementari verità di fatto, preoccupano più di quanto dovrebbero stupire. E suscitano – o per meglio dire risuscitano – la più antica delle domande, e cioè se non possa esistere una terza strada, diciamo così, tra l’accettare il terreno di scontro, i metodi e lo stile dei populisti, rovesciando su di loro un analogo e speculare quantitativo di bugie impastate di odio, e il prenderle senza reagire per tutta la durata dell’incontro, un round dopo l’altro, augurandosi che la giuria – cioè l’elettorato – premi il fair play. Una teoria, quest’ultima, resa sempre meno affidabile dalla crescente polarizzazione della società, che ha trasformato buona parte dei giurati del nostro esempio in tifosi, anzi in veri e propri ultrà.
Si tratta evidentemente di un problema con cui, presto o tardi, secondo le rispettive scadenze istituzionali, dovranno confrontarsi tutti i paesi occidentali alle prese con l’ondata populista (cioè tutti). Intanto, negli Stati Uniti, il leader dell’opposizione giura che «sebbene sia un candidato democratico» sarà «un presidente americano», deciso a lavorare duro per quelli che non lo votano tanto quanto per i suoi sostenitori, mentre il presidente in carica, a chi non vota per lui, minaccia più o meno di fargli sparare (e lavora duro per creare le condizioni migliori affinché i suoi sostenitori possano farlo liberamente). Per questo, ancora una volta, le elezioni americane rappresentano un test decisivo, anzitutto per capire se una terza strada esista, e se sia effettivamente praticabile.
Calando la teoria nel caso concreto, viene da chiedersi per quale ragione i democratici, di fronte allo scoperto e fin qui riuscito tentativo di Trump di definire il carattere della campagna elettorale come lo scontro tra l’anarchia e l’ordine, tra chi difende i poliziotti e chi difende i criminali, non abbandonino ogni altra pur importante questione e non battano sempre e solo sullo stesso tasto: la folle gestione della pandemia. Cominciando, continuando e concludendo ogni discorso su qualsivoglia argomento con la necessità di sconfiggere il Virus in chief, fermare Corona-Donald, stroncare il suo progetto di definanziare la sanità, delegittimare e abbandonare in prima linea i medici e gli stessi agenti che si battono per salvare le vite degli americani contro le gang di esaltati che rifiutano persino di indossare una mascherina.
E insomma per quale motivo, invece di preoccuparsi della falsa accusa di voler costruire un paese in cui le centrali di polizia non avrebbero più nemmeno chi risponda al telefono, i democratici non costringano Trump a difendersi lui dall’accusa – verissima – di voler mettere in quelle condizioni ospedali, pronto soccorso e milioni di americani senza copertura assicurativa.
A sinistra un dilemma del genere ha spesso contrapposto, in tanti paesi, radicali e riformisti. Ma prima di abbandonarsi a facili analogie e schematismi, bisognerebbe tenere conto di almeno due differenze.
La prima è quanto il mondo sia cambiato rispetto agli anni novanta, in cui era ragionevole e conveniente, per entrambi i maggiori schieramenti, una strategia di convergenza verso il centro per contendersi gli elettori marginali, mentre oggi sembra vincere la strategia opposta: sommare gli estremismi più diversi, anche in contraddizione tra loro (come fanno i populisti, tenendo insieme tutto e il contrario di tutto attraverso una sapiente strategia di istigazione all’odio contro il comune nemico: gli stranieri, la sinistra, l’establishment…).
La seconda differenza è che non si tratta affatto di scendere sul terreno dei populisti, come fanno i sostenitori della formula assai equivoca del «populismo di sinistra» (o «democratico», o buono-gentile-bello-simpatico e quel che volete voi, secondo l’antico vezzo che considera la contraddizione logica un problema secondario, fintanto che possa essere ricoperta da un elegante ossimoro). Perché non è possibile nessuna equivalenza tra le teorie del complotto pedo-satanista avallate da Trump contro i democratici e il dire semplicemente la verità sul modo in cui ha affrontato l’epidemia e le conseguenze che questo sta avendo in termini di vite umane. E lo stesso vale – o dovrebbe valere – per qualunque paese in cui i populisti siano andati al potere.
Se poi qualcuno di voi si stesse chiedendo, comunque si concluda l’esperimento negli Stati Uniti, quale lezione dovrebbe trarne in particolare la sinistra italiana, mi dispiace dover notare che evidentemente non siete stati attenti: qui stavamo parlando di partiti che i populisti vogliono combatterli, non candidarli.