L’elenco della spesa è lungo. Ogni ente, sindacato, ministero, categoria professionale ha il suo documento con la lista delle richieste. Mercoledì poi il Comitato interministeriale per gli affari europei (Ciae) dovrà fare la sintesi e indicare almeno le priorità del Recovery Plan italiano, che avrà in dotazione i 209 miliardi del programma Next Generation Ue. Ma il percorso è tutto in salita.
Al Ciae sono arrivati quasi 600 progetti: alcuni erano già nei cassetti dei ministeri e sono stati tirati fuori nella speranza di trovare finalmente una copertura, altri sono più affini alle linee strategiche indicate dall’Europa. Dalla digitalizzazione all’economia verde, dall’occupazione giovanile alle infrastrutture strategiche.
Concetti ripetuti più e più volte volte nelle audizioni in commissione Bilancio alla Camera. Ieri sono stati sentiti Cnel, Cassa depositi e prestiti, Bankitalia e sindacati. Oggi ci saranno province, regioni, Eni, Enel e Svimez. Il 9 settembre in Commissione attività produttive interverrà il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, che da solo ha riempito 37 pagine di progetti, dalla trasformazione 4.0 fino alla space economy, per un valore di oltre 150 miliardi di euro.
Il calendario è serrato. L’Italia ha accumulato ritardi rispetto agli altri Paesi europei. Ancora manca il filo conduttore. E il rischio di farsi sfuggire l’occasione, perdendosi in micro progetti settoriali per accontentare tutti senza interventi strutturali, c’è eccome.
Ma la posta in gioco è alta. E lo ha fatto capire bene Fabrizio Balassone, capo del Servizio struttura economica della Banca d’Italia, illustrando i due possibili scenari ipotizzati da Via Nazionale sull’impatto delle risorse europee in arrivo sull’economia italiana. A patto però che i fondi «siano utilizzati pienamente e senza inefficienze, con una distribuzione della spesa uniforme nel quinquennio 2021-2025».
In un primo scenario, Banca d’Italia ipotizza «che tutte le risorse vengano utilizzate per attuare interventi aggiuntivi rispetto a quelli già programmati e che questi riguardino integralmente progetti di investimento»: in questo caso le maggiori spese ammonterebbero a oltre 41 miliardi all’anno e potrebbero tradursi in un aumento cumulato del livello del Pil di circa il 3% entro il 2025, con un incremento degli occupati di circa 600mila unità. La difficoltà, però, qui sta nel fatto che si tratterebbe di raddoppiare la spesa effettuata nel 2019. Nel secondo scenario, invece, «si ipotizza che una parte rilevante delle risorse, pari al 30 per cento, venga utilizzata per misure già programmate e che la parte rimanente venga destinata solo per circa due terzi a finanziare direttamente nuovi progetti di investimento». Gli interventi aggiuntivi ammonterebbero a circa 29 miliardi all’anno, di cui solo 19 per investimenti. In questo caso, l’impatto cumulato sul livello del Pil raggiungerebbe quasi 2 punti percentuali nel 2025.
Ma l’impatto economico del piano, ha precisato Balassone, deve fondarsi «sull’obiettivo imprescindibile di conseguire un sostanziale, progressivo e continuo riequilibrio dei conti pubblici». Insomma, bisogna ridurre il rapporto debito/Pil. A questo «può contribuire soprattutto il rilancio della crescita, che sarà possibile solo se le risorse saranno impiegate in maniera produttiva». In caso contrario, «i problemi del Paese sarebbero accresciuti, non alleviati, dal maggiore indebitamento». E soprattutto, ha avvertito, «sarebbe rischioso assumere che la disponibilità di maggiori risorse possa automaticamente tradursi in una crescita economica sostenuta e duratura senza un impegno continuo per il miglioramento della qualità dell’azione pubblica».
Il messaggio è chiaro. Con una postilla: servono «tempi rapidi e senza sprechi». Nel metodo, il presidente del Cnel Tiziano Treu ha invitato il governo a selezionare progetti coerenti tra loro e con la strategia europea, accompagnati con indicazioni precise sui tempi e i costi. E in questo Cassa depositi e prestiti avrà un ruolo centrale sia nella ideazione che nella valutazione dei progetti in base ai criteri indicati dalla Commissione europea, ha detto Paolo Calcagnini, vice direttore generale di Cdp. Chiedendo di puntare a due obiettivi: infrastrutture e imprese.
I sindacati, da parte loro, hanno rivendicato un maggiore coinvolgimento nella stesura del piano, proponendo anche che a occuparsi del piano sia un soggetto unico con la responsabilità della progettazione e dell’esecuzione. Il catalogo delle richieste presentate dalle parti sociali va dalla riforma fiscale all’investimento sulla formazione, dalla decontribuzione per le assunzioni giovanili al potenziamento delle politiche attive. Il tutto mentre i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil incontravano per la prima volta il neo presidente di Confindustria Carlo Bonomi, dopo l’acceso botta e risposta dei mesi scorsi. L’ordine del giorno era il rinnovo dei contratti, ma il sottotesto era quel patto sociale invocato a mezza bocca in vista della stesura del Recovery Plan.
Il 10 settembre il ministro per gli Affari europei Enzo Amendola, davanti alle Commissioni Bilancio e Ue di Camera e Senato, farà il punto sulle priorità del piano. Il Ciae per il momento preparerà nient’altro che un documento con le macro aree di intervento, che sarà inviato poi al Parlamento.
Per i progetti veri e propri ci vorrà ancora tempo. Le bozze dei draft budgetary plan dovranno essere approvate dal Consiglio dei ministri e inviate alla Commissione europea entro il 15 ottobre. Ma prima, entro settembre, sarà Bruxelles a presentare le linee guida per ciascuno Stato membro. Tanto per esser sicuri che – per dirla con il commissario Paolo Gentiloni – non si usino i fondi europei per abbassare le tasse. L’invio ufficiale non potrà avvenire comunque prima del 2021, perché la stessa Commissione deve individuare ancora lo strumento giuridico per l’erogazione dei fondi. D’altronde, per presentare i piani veri e propri c’è tempo fino ad aprile. E fino ad allora le liste della spesa potrebbero accumularsi ancora sulle scrivanie.