La crisi del Covid 19 ha riacceso in Italia il dibattito sull’alta percentuale di lavoro informale nel nostro Paese. Lavoratori irregolari, concentrati in settori essenziali come la logistica, i trasporti, l’agroalimentare, la ristorazione e l’edilizia, che rappresentano le braccia di quell’economia sommersa che in Italia vale il 12% del Pil e impiega 3,7 milioni di persone. Un bacino difficile da intercettare che, dinanzi al lockdown, si è ritrovato senza alcun tipo di protezione sociale. Sia la sanatoria per gli irregolari sia il Reddito d’emergenza si sono rivelate, alla fine, misure insufficienti per tutelare questi segmenti periferici del mercato del lavoro.
Ecco perché in molti si sono interrogati sulla opportunità di riconfigurare i programmi di protezione sociale, attraverso ad esempio l’introduzione di un reddito di base universale e incondizionato. Proprio mentre la disoccupazione crescente, soprattutto tra i giovani, spinge verso politiche attive che garantiscano un pieno impiego.
La domanda a questo punto è: garantire il reddito o il salario? Questo è il “dilemma”, di cui si è discusso nel terzo incontro del ciclo “Forza Lavoro!”, organizzato da Fondazione Feltrinelli, in collaborazione con The Adecco Group. I partecipanti sono stati Guy Standing, co-fondatore del Basic Income Earth Network (Bien) e Riccardo Bellofiore, docente di scienze economiche dell’Università di Bergamo, affiancati dal think tank Tortuga.
Negli ultimi 40 anni, ha spiegato Standing, docente all’Università Soas di Londra e una delle voci più autorevoli sul Reddito universale di base, «siamo passati da un sistema neoliberale a un capitalismo rentier, dei redditieri. Vuol dire che il reddito che viene generato va sempre di più a coloro che possiedono beni finanziari o proprietà intellettuale». Mentre «la quota di reddito disponibile per pagare i lavoratori scende sempre di più». La conseguenza, secondo Standing, «è che sempre più persone hanno cominciato a indebitarsi». E mentre il vecchio proletariato della classe lavoratrice industriale sta scomparendo, «il nuovo precariato vira verso una vita di insicurezza economica con salari sempre minori». Ecco perché, spiega, basta avere uno choc economico come quello del Covid per mandare milioni di persone in una condizione di povertà.
Nel suo ultimo libro, “Battling Eight Giants. Basic Income Now”, Standing spiega che ci sono otto giganti da affrontare per avere una società migliore: disuguaglianza, insicurezza, debito privato, stress e ansia, precarietà, automazione, minaccia dell’estinzione, populismo neofascista.
Lo strumento principe per affrontare questi otto giganti, secondo l’economista britannico, è il reddito di base universale incondizionato. Un reddito di esistenza, non condizionato dalla accettazione di un lavoro per vivere, che potrebbe «potenziare la libertà di dire no allo sfruttamento e all’oppressione, dando maggiore potere contrattuale e assicurando a tutti una sicurezza di base».
Nell’ottica di Standing, «la resilienza della società dipende dalla resilienza dei gruppi più deboli». Ce ne siamo accorti con l’emergenza epidemiologica, dice. Questo «è un momento di trasformazione. Abbiamo bisogno di una strategia che possa emancipare le persone per definire un nuovo rinascimento. Il reddito di base non è una panacea a tutti i mali» ma può essere un nuovo «patto sociale». Perché «se non abbiamo una strategia che possa aiutare i precari, non risolviamo niente». Davanti alla pandemia, «la cosa più importante è ridurre lo stress, l’ansia, la disperazione», e questo «possiamo farlo cambiando il sistema della distribuzione del reddito».
Ma come finanziare uno strumento di questo tipo? Il modo migliore, risponde Standing, sono le carbon tax da applicare a chi produce emissioni di gas serra, come è accaduto in Alaska e in Norvegia. Ma nella piena crisi Covid, aggiunge, introdurre il basic income è anche una questione di sopravvivenza: «Dobbiamo stimolare la domanda per beni e servizi di base e possiamo farlo solo se tutti godono di una sicurezza economica».
E perché non un reddito condizionato al lavoro? «Il job guarantee non è welfare», risponde Standing, «ma un tipo di workfare, per cui lo Stato dice “o accetti il lavoro o non prendi niente”». E invece «abbiamo bisogno di un sistema che permetta a più persone di passare più tempo a occuparsi di qualcosa che è importante per la famiglia e la comunità, come il volontariato, invece che di lavori feticci imposti dall’alto».
Ma il basic income, spiega Riccardo Bellofiore, «richiederebbe condizioni istituzionali precise. Con il sistema fiscale che abbiamo, non possiamo farlo». Allo stesso tempo, «il job guarantee è una proposta che rischia di abbassare la struttura dei salari e dei redditi, senza interessarsi troppo della qualità del lavoro». C’è bisogno, allora, «di una politica del lavoro che metta in questione l’intera organizzazione della società», con una «rivoluzione delle politiche sociali».
Sul sito del Basic Income Earth Network si trova la mappa delle sperimentazioni in corso nel mondo. Dall’India all’Africa, dal Canada alla California, si sta testando la misura. «La metodologia è sempre diversa», spiega Standing, «ma il risultato è sempre stato coerente e tutti questi progetti hanno portato al miglioramento della salute mentale delle persone coinvolte».
La discussione è accesa in tutto il mondo. La Corea del Sud e diversi Paesi africani stanno ipotizzando di introdurre un basic income come risposta alla turbolenza economica generata dalla pandemia. E se ne parla molto anche in Europa. La prossima primavera partirà anche una sperimentazione in Germania, con 120 persone coinvolte. E in Italia è tornato a chiederlo Beppe Grillo.
La crisi Covid, dice Bellofiore, «ci chiede di riorganizzare e ridefinire la qualità della produzione», ma richiede anche «un ridisegno del lavoro e del reddito». «È il momento di essere radicali», conclude Standing, «non si può tornare alle strategia di supporto al lavoro del passato: occorrono coraggio e immaginazione».