L’estate 2020 è trascorsa invano e nell’agenda delle istituzioni europee il tema della Conferenza sul futuro dell’Europa è ancora indicato con un grosso punto interrogativo. Nonostante l’accordo fra capi di Stato e di governo dell’Unione europea su European Recovery Fund, Next Generation EU e Quadro Finanziario Pluriennale la nebbia è fitta a Bruxelles.
L’Unione europea è assente nei teatri della politica estera (Siria, Libia, Libano, relazioni israelo-palestinesi, Mar Egeo, Bielorussia per non parlare del Continente africano), balbetta da anni sulla gestione dei flussi migratori e la revisione del regolamento di Dublino, ha messo nel freezer il Pilastro sociale di Göteborg, traccheggia sull’Agenda 2030, si è piegata senza reagire al rinvio di un anno della COP26 sotto presidenza britannica, ha accantonato tutti i dossier per il completamento dell’Unione economica e monetaria, non conosce come si concluderà il tormentone sul Brexit e – last but not least – chiude gli occhi sulle violazioni interne dello Stato di diritto mentre la Corte europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo e il suo presidente Ròbert Ragnar Spanò affondano nella vergogna di fronte agli omicidi di Stato commessi dal califfo Erdogan in Turchia.
Per rimanere nell’ambito della politica estera, della sicurezza e della difesa e stendendo un velo di pietoso silenzio sull’inutile “strategia globale dell’Unione europea” del giugno 2016 – ben conservata negli archivi del Consiglio dell’Unione europea – sappiamo che la cooperazione strutturata permanente in materia di difesa, nata con l’idea di creare una avant-garde, è diventata, perché estesa su richiesta tedesca a 25 paesi che devono decidere all’unanimità, una arrière-garde.
Veniamo ora alla Conferenza sul futuro dell’Europa.
I capi-gruppo del Parlamento attendono con eccesso di pazienza – ma la pazienza ha un limite e non sempre è la virtù dei forti – che il Consiglio o peggio il Consiglio europeo diano il loro accordo sul mandato della Conferenza, sulla sua governance, sulla sua organizzazione e in particolare sulle modalità del dialogo con le cittadine e i cittadini (che secondo qualcuno dovrebbero essere consultati random) e sull’esito dei suoi risultati.
Alcuni gruppi e molti deputati in buona fede europeista insistono sull’idea che i governi (l’insieme dei governi all’unanimità) mettano nero su bianco il loro accordo sul principio della revisione dei trattati.
Il Movimento europeo ritiene
- che il mandato debba essere discusso e auto-deciso dalla Conferenza
- che è tempo perso discutere con i governi sul principio della revisione dei trattati
- che spetta al Parlamento europeo – a nome delle cittadine e dei cittadini europei che lo hanno eletto – riaprire il cantiere dell’Unione europea.
Il Movimento europeo ritiene inoltre inoltre che il Parlamento europeo debba respingere con sdegno l’idea che i risultati (“raccomandazioni” della Conferenza) siano consegnati al Consiglio europeo sapendo che esso ne farà carta straccia.
La Conferenza deve essere lo spazio pubblico in cui il Parlamento europeo verifica la volontà maggioritaria degli attori che ne saranno protagonisti di riaprire il cantiere dell’Unione europea tredici anni dopo la firma del Trattato di Lisbona.
Il Movimento europeo ritiene che il Parlamento europeo debba cercare con urgenza la via di un dialogo strutturato e permanente con i parlamenti nazionali e le assemblee legislative regionali mobilitando i partiti politici europei e proponendo loro di promuovere delle “assise interparlamentari” come quelle che si svolsero a Rona nell’aula di Montecitorio nel novembre 1990 alla vigilia del Trattato di Maastricht.
Contemporaneamente il Parlamento europeo dovrebbe organizzare delle agorà tematiche e transnazionali con le organizzazioni rappresentative della società civile europea.
Così il Parlamento europeo potrebbe contribuire a far diradare la fitta nebbia che pesa su Bruxelles!
*Pier Virgilio Dastoli è Presidente Movimento Europeo – Italia