Si è già detto molto sul lungo discorso dedicato allo stato dell’Unione e pronunciato davanti al Parlamento europeo a Bruxelles il 16 settembre dalla Presidente Ursula Von der Leyen.
Come per Eduardo De Filippo, se ci si consente il paragone, si potrebbe parlare del «colore delle parole» e della «temperatura dei silenzi». Vogliamo concentrarci qui sulla «temperatura dei silenzi» che hanno riguardato due aspetti essenziali del futuro dell’Unione europea.
Il primo concerne il pilastro sociale e cioè la lotta alle diseguaglianze che non può essere risolta solo dal fiume di danaro che dovrebbe scorrere dalla sorgente di Bruxelles verso i paesi membri e suddividersi in sette rami diversi in parte sotto forma di prestiti (la maggioranza), in parte sotto forma di sovvenzioni dirette ma in parte attraverso programmi europei la cui destinazione nazionale non è garantita in partenza.
La pandemia non ha avuto effetti solo sull’economia e sulle finanze dei nostri paesi ma sui modelli delle nostre società a cominciare dal ruolo del lavoro, la mobilità, il tempo libero, il gap generazionale, le pari opportunità, i rapporti tra le città e le aree interne, le politiche di inclusione, gli effetti della società digitale e dello sviluppo della robotica, l’uso di strumenti come il blockchain che è andato ben al di là della diffusione dei bitcoin e infine – last but not least – il tema della democrazia economica.
La «temperatura del silenzio» nel discorso sullo stato dell’Unione può essere rapidamente verificata sia perché fra poche settimane ci sarà il “vertice sociale tripartito” fra istituzioni europee e parti sociali (rappresentanti dei lavoratori e imprenditori) che, ai tempi di Delors, era l’occasione per mettere sul tavolo proposte precise della Commissione sulla dimensione sociale sia perché l’attuale Commissione presieduta da Ursula von der Leyen (che è stata ministra del lavoro in Germania) si è per ora limitata a dire e a proporre un metodo di sviluppo del Pilastro Sociale – adottato “solennemente” a Goteborg nel novembre 2017 – fondato su “piani di azione” e non su strumenti giuridicamente vincolanti o finalmente rispettosi della clausola sociale orizzontale introdotta nel Trattato di Lisbona.
L’idea dei piani d’azione è stata lanciata dalla Commissione europea in una comunicazione pre-pandemia del gennaio 2020 su cui vi è stata un’ampia consultazione e ci si poteva immaginare che dalle parole si passasse ai fatti e cioè a proposte legislative.
Il silenzio del 16 settembre è stato invece assordante e, nella lettera di intenti per il 2021 inviata a David Sassoli e Angela Merkel. Ursula von der Leyen preannuncia ventisette iniziative legislative ma solo un altro piano di azione sul Pilastro Sociale, su una garanzia per l’infanzia, su una strategia per l’occupazione e per l’economia sociale.
La seconda temperatura del (quasi) silenzio riguarda la Conferenza sul futuro dell’Europa, un’idea piuttosto vaga che fu lanciata da Emmanuel Macron il 4 marzo 2019 e che si sarebbe dovuta concludere alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi nella primavera del 2022.
Il Parlamento europeo ha considerato che la Conferenza potesse essere uno spazio per affermare la sua leadership e tentare di riaprire il cantiere dell’Unione europea chiedendo una riforma dei trattati a più di dieci anni dall’entrata in vigore di quello di Lisbona nel dicembre 2009.
Apparentemente bloccata dalla pandemia, la Conferenza non è partita perché sono molto distanti le posizioni fra il Parlamento europeo e i governi non solo sul principio della revisione dei trattati (che è condiviso per ora solo dal governo austriaco che vorrebbe ridare agli Stati delle competenze attribuite all’Unione) ma sulla governance (e cioè su chi deve presiederla), sui suoi tempi, sulle modalità del coinvolgimento della società civile e sul destino delle sue proposte.
Alla Conferenza Ursula von der Leyen ha dedicato trenta parole in quindici pagine dicendo che «una delle sue missioni – “nobili e urgenti” – sarà la questione delle competenze in materia sanitaria». Non una parola sulla Conferenza è stata invece spesa in altre parti del discorso sul futuro dell’Unione che pur richiederebbero una riforma che potremmo chiamare costituzionale.
Possiamo immaginare che il solido pragmatismo tedesco abbia portato lentamente la presidente della Commissione europea a riflettere sui rischi che una Conferenza promossa sulla base di un più che minimo comun denominatore fra Parlamento e governi possa diventare rapidamente uno spazio all’interno del quale scaricare tutte le questioni del “potere costituito” (e cioè delle decisioni che dovrebbero essere prese dalle istituzioni sulla base dei trattati e delle procedure attuali) lasciando da parte il “potere costituente” (e cioè tutto quel che deve essere fatto al di là dei trattati).
Le materie – “nobili e urgenti” – da sottoporre al potere costituente non mancano e sono state messe in evidenza in questi mesi di pandemia: la capacità fiscale dell’Unione europea e le risorse proprie, la governance dell’UEM per risolvere quella che Ciampi chiamava la sua zoppia, la paralisi nella politica estera e della sicurezza ivi compresa la dimensione della difesa per la prevalenza assoluta del metodo intergovernativo, l’integrazione differenziata e cioè il tema dell’Europa a due velocità, l’inadeguata ripartizione delle competenze e last but not least il tema della incompleta democrazia europea.
Speriamo che la temperatura del silenzio della presidente Ursula von der Leyen sulla Conferenza per il futuro dell’Europa preluda a un suo atto di rottura dell’apparente pax interistituzionale e degli inutili tri-dialoghi fra i presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio europeo e della Commissione europea.
Speriamo soprattutto che il Parlamento europeo comprenda rapidamente il tempo perso nella ricerca di un minimo comune denominatore con il Consiglio e proponga alla Commissione una via alternativa alla Conferenza sul futuro dell’Europa infragilita anch’essa dalle conseguenze del COVID-19 affinché questa legislatura diventi finalmente costituente per costruire una «unione vitale in un mondo fragile».
*Pier Virgilio Dastoli è Presidente Movimento Europeo – Italia