Emmanuel Faber, amministratore delegato di Danone, durante il lockdown imposto dal coronavirus ha risposto alla necessità con un nuovo paradigma di gestione che fa perno sulla flessibilità dell’azienda e dei suoi dipendenti. È l’unico modo, dice, che può garantire alle società di rimanere competitive in quello che Faber definisce “Covid World”.
Lo racconta Andrew Hill in un approfondito articolo apparso sul Financial Times, che nota come la pandemia abbia fatto crescere nuove iniziative, dato nuova linfa alle vecchie e costretto i manager a rivalutare un approccio finora basato sulla vicinanza al personale.
Nonostante le difficoltà di alcuni lavoratori a svolgere il lavoro da remoto in spazi angusti o inadatti, molte aziende hanno avviato piani di lavoro a distanza che molto probabilmente si riveleranno irreversibili. In alcune realtà, scrive Andrew Hill, «la crisi ha rivelato capacità nascoste dei dipendenti e ha consentito ai manager di impiegare il personale in modo più flessibile. Alcune aziende hanno persino demolito o sovvertito le gerarchie interne o sfidato consuetudini di vecchia data della cultura aziendale».
Non tutti, però, sono così ottimisti. «Non ho visto niente di particolarmente creativo o innovativo», dichiara Laszlo Bock, prima a capo del personale di Google e ora a capo di Humu, una società da lui creata con l’obiettivo analizzare e incoraggiare il coinvolgimento e le prestazioni del personale. «Siamo passati dalla fase adrenalinica alla fase “immobiliare” – “forse non avremo più bisogno dell’ufficio” – alla fase di incitamento: “Ora abbiamo un piano di ritorno!”».
I lati oscuri non mancano. Quando le aziende decidano di assumere la manodopera più economica da remoto, verranno meno le opportunità dei lavoratori qualificati nei paesi più sviluppati e costosi. Un altro problema è il monitoraggio a distanza, che sta portando a sinistre tecniche di sorveglianza del personale come il rilevamento del tempo passato davanti allo schermo o della sequenza dei tasti digitati sulla tastiera.
Senza contare il rischio rappresentato dal superlavoro, specialmente per la categoria dei colletti bianchi, quando si assottiglia il confine tra casa e ufficio. Per arginare i rischi legati ai maggiori oneri che gravano sul personale, diverse aziende hanno sviluppato app per la salute mentale. Teresa Hassara, responsabile di soluzioni per il lavoro per Mass Mutual, una compagnia di assicurazioni statunitense con oltre 7.500 dipendenti, ha spiegato al quotidiano britannico che l’azienda monitora gli orari in cui sono stati inviati mail e messaggi per accertarsi che «quando le persone lavorano alle 23 si tratta di una scelta e non vuol dire che improvvisamente stanno lavorando 60 o 70 ore settimanali».
Le aziende si trovano ora a dover affrontare la nuova sfida rappresentata dai team ibridi, ovvero quelli formati da una parte di lavoratori presenti in loco e un’altra parte che lavorano da remoto. Job van der Voort, fondatore di Remote.com, una piattaforma creata per adeguare la regolamentazione del lavoro in presenza alle nuove esigenze del lavoro da remoto, afferma che «se sei in ufficio e gli altri lavorano da remoto, tutti devono agire come se lavorassero da remoto. Diversamente ne scaturisce un bias di cui le persone presenti in ufficio tarderanno a comprendere l’effetto».
Van der Voort sostiene che a fare la differenza può essere anche uno scarto tra l’invio e la ricezione di un messaggio che abbia un tempo di latenza di 100 millisecondi. E aggiunge che in caso di “lavoro asincrono”, ad esempio quando ci si trovi a lavorare con fusi orari diversi, è necessario che tutti i documenti siano pubblici e rilevabili così da evitare i lunghi tempi di risposta di chi li detiene in consegna.
Sempre secondo Laszlo Bock, tuttavia, la maggior parte delle aziende stanno sprecando un’opportunità preziosa per ripensare il rapporto lavoratore-datore di lavoro e lavoratore-lavoratore, e stanno trascurando processi fondamentali come integrare il personale assunto o mantenere una cultura aziendale. Per questo Humu, la società che ha fondato, ha sviluppato processi formali e informali per incoraggiare una maggiore interazione tra i lavoratori online. Come ad esempio un meeting virtuale dove i colleghi possono intrattenersi per una chat informale, o il coinvolgimento di un ufficiale interreligioso per discutere dei problemi individuali.
«Alcuni datori di lavoro», riporta Andrew Hill, «stanno sperimentando l’abolizione dei titoli di lavoro e l’incoraggiamento a un’applicazione più flessibile delle competenze». Emaar, uno sviluppatore immobiliare di Dubai leader nel settore, ha annunciato a luglio che la pandemia aveva spinto la società a eliminare le descrizioni di posizione lavorativa, sostenendo che l’azienda «non è un insieme di individui di talento, ma un team di talento messo a disposizione di tutti».
Il punto chiave è ripensarsi in modo intelligente. «L’idea che ogni colletto bianco debba essere in ufficio dalle 8.30 alle 18 cinque giorni alla settimana è sciocca», afferma Amy Edmondson, docente della Harvard Business School. Compiti come la gestione dei dati o la stesura di un rapporto posso essere svolti più facilmente da casa, mentre altri come il brainstorming, il concentrarsi sulle sfumature di un problema o il confronto di idee reciproche richiedono maggiore vicinanza.
«La crisi», nota Anrew Hill, «ha anche messo in luce quanto le grandi organizzazioni fossero lente nell’adottare un approccio gestionale più umano e di buon senso». Il livello di maggiore intimità e onestà nelle dinamiche aziendali a cui assistiamo oggi, sottolinea Teresa Hassara, deriva dal fatto che ora i manager scavalcano i livelli gerarchici per parlare direttamente ai dipendenti che si trovano diversi gradi sotto di loro all’interno dell’organigramma.
«La maggior parte dei leader [aziendali] si sta rendendo conto che è più facile apportare grandi cambiamenti», dichiara Bock. Cambiamenti che la crisi Covid ha accelerato e portato alla luce in modo evidente.