Qualcosa è cambiatoContrordine compagni, ora per Zingaretti è ridicolo discutere dell’alleanza strategica con i grillini

La direzione del Partito democratico ha ratificato la malinconica indicazione del Si al referendum del 20-21 settembre in un tripudio di formalismi da studio notarile. Conte andrà alla festa dell’Unità di Modena martedì sera per rincuorare i compagni dem che è tutto a posto, ma i vertici Pd sono nervosissimi

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Qualcosa è cambiato. Fra Partito democratico e Movimento Cinque Stelle non è più come prima, ai bei tempi della decantata “alleanza strategica” che sotto il peso delle dure repliche della storia, si sarebbe detto un tempo, sta diventando un accordo ispirato alla cultura del dispetto più che del rispetto. Tanto che alla Direzione del Pd, che ha ratificato la malinconica indicazione del Si in un tripudio di formalismi da studio notarile, Nicola Zingaretti ha detto che la discussione sulla alleanza strategica (copyright Dario Franceschini) è “ridicola”: contrordine compagni, di strategico qui non c’è niente.

L’impressione dunque è di una maggioranza se non sfilacciata comunque senza un collante che non sia l’emergenza Covid con tutto ciò che ne consegue ma dove ognuno marcia per conto suo. Addirittura, come ha detto Gianni Cuperlo: «Dopo il 21 bisognerà affrancare il Pd da vincoli che per prime le altre forze politiche non hanno rispettato». Liberi tutti.

Ecco perché Giuseppe Conte, l’uomo che cammina sui due trampoli – Pd e M5S appunto – andrà alla festa dell’Unità di Modena martedì sera, per rincuorare i compagni dem che è tutto a posto, l’alleanza (a questo punto tattica) regge e non c’è dunque nessun motivo per essere nervosi. Ma saranno tutte chiacchiere. Perché il Pd è nervosissimo con il M5S (e manco a dirlo con Italia viva) per il tradimento sulle alleanze alle Regionali sia per il mancato sostegno ai tentativi del Nazareno di arrivare al referendum con qualche cosa in mano, legge elettorale o correttivi di altro tipo.

Di qui il sospetto del Pd che Luigi Di Maio in realtà stia ostacolando la performance generale del governo con l’obiettivo di non rafforzare Conte. Non è chiaro cosa abbia in mente il ministro degli Esteri ma quello che si vede a occhio nudo è un suo contrappunto pressoché continuo alle parole del presidente del Consiglio, e così se quest’ultimo liquida Mario Draghi («è stanco») ecco che Giggino ne parla come di una risorsa perché «abbiamo bisogno di tutti»: una lite fra di loro insomma che però mette in difficoltà il partito di Zingaretti, esposto al rischio di perdere alle Regionali 4 a 2 e nel contempo di trovarsi in rotta di collisione con la gran parte del mondo della sinistra storica (a parte Bersani e D’Alema per ragioni legate alla stabilità del governo), del centrosinistra e della sua stessa base sulla questione del referendum.

Da quest’ultimo punto di vista c’è da dire che il segretario le ha tentate tutte. Ha usato toni molto morbidi e comprensivi verso chi sostiene il No, ha recepito la proposta, un po’ démodé, di Luciano Violante di avviare una raccolta di firme per una legge per il superamento del bicameralismo perfetto, ha spiegato e rispiegato che le riforme “vere” presto seguiranno e daranno un senso al taglio del numero dei parlamentari.

Tutte cose che non hanno, com’era presumibile, addolcito le posizioni dei sostenitori del No, che comunque nella Direzione sono molto sottostimati rispetto alla realtà dei gruppi parlamentari e presumibilmente degli iscritti. Il bizantinismo di stralciare la questione del referendum ha consentito al segretario una larghissima maggioranza sulla sua relazione. Sul referendum nessuno ha convinto nessuno, in una discussione obiettivamente tardiva in cui il “Sì triste” era già acquisito.

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