L’intervista di Vito Crimi al Corriere della Sera rinnova i fasti della commedia all’italiana, è puro avanspettacolo politico. Un paio di giorni dopo la farsa del voto su Casaleggiò per consentire ai grillini di siglare alleanze politiche con altri partiti, Crimi spiega che, al contrario di quanto hanno detto Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, il quesito non riguardava il Pd, le regionali e l’alleanza strategica di governo ma una richiesta locale di 4 comuni, tra cui la ridente Vimercate.
Non scoppiate già a ridere, perché c’è di meglio:
«Conte cita Puglia e Marche. E possibile un’intesa?
No, la questione è chiusa da tempo. Lì abbiamo fatto un’opposizione ferma e un’alleanza è infattibile»;
«Che senso ha votare per consentire di allearsi con il Pd e poi non allearsi?
Ho deciso il voto perché ho ricevuto richieste da quattro Comuni che hanno presentato un progetto.
Mi sta dicendo che il voto su Rousseau riguardava quattro Comuni, non un’alleanza con il Pd, come sembrava anche dalle parole di Di Maio?
Assolutamente no. Non c’è alleanza strutturale».
Siete insieme al governo.
«Qualcuno poteva parlare di alleanza strutturale anche con la Lega. Ma non l’abbiamo fatta e non la facciamo oggi, perché siamo nati per combattere il sistema dei partiti e vorremmo aiutarli a migliorarsi
Lega e Pd sono intercambiabili?
Forse con il Pd ci sono più somiglianze, anche se ci sono distinguo non indifferenti.
Il Pd è ancora il partito di Bibbiano. Non è arrivato il momento di scusarsi?
Forse abbiamo esagerato nel generalizzare fatti specifici attribuendoli a tutto il Pd».
Abbiamo citato alcuni passaggi esilaranti dell’intervista di Crimi ad Alessandro Trocino, passaggi in realtà tragicomici, ma la questione purtroppo è seria non tanto per l’analfabetismo politico dei babbeiacinquestelle e dei loro complici, ormai diffusosi anche su fogli un tempo immuni, ma per l’umiliazione pubblica prima del premier-gagà che-invidia-a-tutto-il-mondo-fa e poi del Partito democratico.
La mortificazione politica del Pd di Nicola Zingaretti è seconda soltanto a quella subìta da Pierluigi Bersani ai tempi dello streaming con Beppe Grillo, ma con l’aggravante che questa volta c’era, appunto, quel mesto precedente. Crimi non solo non ha spiegato che il movimento di Casaleggio non ha alcuna intenzione di allearsi con il Pd alle regionali, spiegando peraltro che per lui il partito di Zingaretti e quello di Salvini pari sono, confermando una linea politica che solo i dirigenti del Pd non ha ancora compreso, ma prende le distanze anche dall’alleanza strategica di governo e, senza alcun imbarazzo, pure si lamenta che il Pd non stia correndo a sostenere la rielezione di Virginia Raggi a Roma, evidentemente immaginando che il Pd potrebbe essere pronto a questa ulteriore autoflagellazione pur di inseguire i populisti.
Solo che ormai non è più un inseguimento, è immedesimazione, è transfert freudiano, è sindrome di Stoccolma, è andata e ritorno di circonvenzione tra incapaci.
Stiamo assistendo alla più plateale cerimonia di resa politica di un partito ai suoi carnefici, suoi e della democrazia rappresentativa, una materia letteraria che necessita di un nuovo Houellebecq capace di raccontare la sottomissione non più distopica ma reale, qui e ora, del Pd alla furia populista.
Il Pd è entrato in una spirale dianetica, più si assoggetta alla setta, più rinuncia alla sua funzione riformista, e più riceve oltraggiosi due di picche dal più due di picche dei babbeiacinquestelle. Ma un minimo di orgoglio, no? No, evidentemente. Quando l’unico No che il Pd dovrebbe abbracciare è quello del No al populismo in occasione del referendum del 20 settembre sul taglio della politica che i santoni associati di cui sono infatuati, naturalmente non ricambiati, gli hanno chiesto come pegno d’amore. Un No ancora più urgente adesso che l’istituzione progressista più importante del paese, il quotidiano La Repubblica, grazie a Maurizio Molinari si è schierata senza tentennamenti contro il populismo istituzionale.
Fino a quando il Pd intenderà rincorrere Vito Crimi? Fino a quando un partito glorioso che ha retto e salvato il paese negli ultimi dieci anni, evitando la bancarotta cui gli avversari l’avevano destinato, potrà continuare ad accettare i diktat del progetto eversivo di una srl? E se, invece, il corso irreversibile sembra essere quello della trasformazione del Pd in partito demogrillino quando partirà una scalata antipopulista al Partito democratico, per liberarlo da chi si è arreso ai demagoghi e per restituirlo allo spirito liberalsocialista delle origini?
La risposta spetta a Giorgio Gori e a Tommaso Nannicini, a Lorenzo Guerini e a Matteo Orfini, a Paolo Gentiloni e a Roberto Gualtieri, a Filippo Sensi e a Lia Quartapelle, e a tutti i riformisti liberal e progressisti che non si rassegnano e che resistono.