Il mondo sta marciando verso il futuro con la testa rivolta al passato. Un numero crescente di paesi, a cominciare da quelli occidentali, si ritrovano intrappolati in un passato che non esiste più e che probabilmente non è mai esistito davvero.
Milioni di persone, soprattutto nelle economie avanzate, credono che la vita fosse migliore cinquant’anni fa: le opportunità di lavoro abbondavano – così insegna il rimpianto mitico del passato –, le comunità locali erano integre e il ritmo dei cambiamenti tecnologici era sotto controllo.
La maggior parte dei russi rimpiange ancora l’Unione Sovietica. I sostenitori più accaniti del divorzio britannico dall’Unione Europea hanno spesso vagheggiato i giorni in cui l’Impero britannico aveva il pieno controllo del proprio destino e dominava gli oceani. Intanto una fetta significativa della popolazione americana rimpiange il potere e l’influenza di cui gli Stati Uniti godevano durante la guerra fredda e nel periodo immediatamente successivo. Persino la figura di Mao Zedong sembra oggetto di riscoperta, a giudicare dalle file di cinesi che ogni anno, per rendergli omaggio, si recano a Shaoshan, la cittadina rurale che gli diede i natali.
Ad alimentare questa epidemia di nostalgia è il senso di perdita: di status globale, di prosperità socioeconomica, di sicurezza e di integrità culturale. I cittadini non proiettano più le loro aspirazioni su visioni utopiche di un futuro idealizzato.
Preferiscono rifugiarsi nel passato, in un’epoca in cui i confini nazionali erano meno porosi di quanto siano oggi e i governi, apparentemente, li facevano sentire più protetti.
La nostalgia serve a difendersi dall’angoscia generata dalla situazione socioeconomica del presente. Il passato è associato al progresso; il futuro alla stasi o al regresso. Da una prospettiva puramente psicologica, la nostalgia è in effetti una strategia di difesa con cui far fronte ai momenti di profonda incertezza e discontinuità radicale. La nostalgia sottrae le sue «vittime» a un presente spiacevole e le riporta in un passato familiare, rafforzando così l’autostima necessaria per affrontare periodi di stress prolungato.
Sul piano collettivo, la nostalgia consolida i legami con quanti coltivano lo stesso ricordo di un tempo idealizzato, così da tracciare una netta demarcazione tra gruppi concorrenti: la modalità con cui la nostalgia opera è fortemente selettiva, ad excludendum, in particolare verso minoranze e comunità immigrate.
In un mondo alle prese con epocali mutamenti geopolitici, demografici e tecnologici, accelerati dall’impatto di una pandemia globale, non mancano certo ragioni per essere nostalgici. Per potenze post-imperiali come Cina, Russia e Turchia, il tramonto dell’egemonia liberale americana crea opportunità per riaffermare il loro status sulla scena mondiale. Rievocare la gloria passata contribuisce a motivare una nazione, dimostrando che modificare l’ordine globale è possibile e, in qualche maniera, legittimo.
Sul piano individuale, la nostalgia è uno strumento consolatorio, che permette di riannodare i fili della propria esistenza in un’epoca dominata dall’incertezza. I rischi per l’occupazione generati dalle trasformazioni tecnologiche inducono per esempio, soprattutto in Occidente, il desiderio di tornare a quella sicurezza economica e a quella mobilità sociale di cui godevano (almeno apparentemente) i nostri genitori.
Al tempo stesso, l’invecchiamento della popolazione in Europa, Nord America e in varie regioni dell’Asia non fa che aggravare psicologicamente questi fattori. Le vittime più probabili della nostalgia sono naturalmente le persone di una certa età. E l’impatto socioeconomico di Covid-19 accentua questi riflessi.
Lungi dall’essere innocua, questa infatuazione per un passato mitizzato, che di solito viene rimodellato nel ricordo – su questo Proust aveva certamente ragione – sta imprimendo una fisionomia rischiosa alla politica contemporanea. Le ansie collettive contribuiscono ad alimentare il nuovo tribalismo delle nostre società, dividendole in fazioni belligeranti.
La nostalgia non si limita semplicemente a confondere passato, presente e futuro, ma spinge anche cittadini e governi a cercare conforto in un’epoca nella quale i confini nazionali erano ancora rigidi, un’era pre-globalizzazione in cui ogni stato era in teoria padrone del proprio destino. Ecco perché nostalgia e nazionalismo sono intimamente legati.
Utilizzata nel dibattito politico, la nostalgia diventa un’arma emotiva da impiegare in chiave sia difensiva sia offensiva. A quanti respingono un mondo cosmopolita e ambiscono invece alle sicurezze socioeconomiche delle generazioni precedenti, il nazionalismo promette identità e protezione: l’assunto è che un ritorno alla piena sovranità arginerà quelle forze globali responsabili del disagio attuale. La solidarietà è quindi limitata a comunità chiuse e la nostalgia funge da meccanismo di autodifesa.
Parimenti, a coloro che aspirano a restituire alla propria nazione la gloria di un tempo, la nostalgia fornisce l’energia per tentare di acquisire influenza a scapito dei paesi rivali. In questo caso la nostalgia può essere dispiegata in modo offensivo, finendo per alimentare tensioni tra stati, sfruttando le fratture generate da fattori etnici, culturali o storici e rendendo impossibile, di fatto, la cooperazione globale. Lo sbocco inevitabile di tendenze del genere – all’insegna del «my country first» – è un mondo hobbesiano, caratterizzato dai conflitti.
Solo raramente la nostalgia è utilizzata in maniera cooperativa. Ciò può verificarsi tra nazioni che condividono particolari legami culturali, religiosi o storici (come gli anglosassoni). Ma gli interessi nazionali possono divergere anche tra paesi animati da una nostalgia affine, generando comunque tensioni. La nostalgia cooperativa, in altre parole, è l’eccezione che conferma la regola.
L’età della nostalgia è iniziata. È un’epoca di falsi miti, di valutazioni politiche errate, di fake news senza precedenti e di tensioni crescenti tra le nazioni: un’epoca di regressione e pessimismo. I leader nazionalisti tendono sempre più spesso a suscitare sentimenti di nostalgia per poi sfruttarli a proprio vantaggio.
Non si limitano a considerare il passato con occhi critici, riconoscendo che, se lungo la strada si è perso qualcosa, molte sono state tuttavia le conquiste. Vogliono invece ripartire da zero, ricostruire la casa perduta e restaurare il tempo andato. In sostanza: l’ambizione è di riportare indietro l’orologio per affrontare le sfide del futuro facendo leva sulla forza passata.
Questa, in effetti, è la forma tossica della nostalgia. Il presidente cinese Xi Jinping ha invocato un «grande ringiovanimento del popolo cinese». Con cinquemila anni di civiltà alle spalle, la Cina sta riemergendo, anzi è decisamente riemersa, come potenza economica e politica globale.
Da parte sua, Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti con il chiaro mandato di privilegiare e ristabilire il primato dell’America, all’insegna del «Make America Great Again».
Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan nutre ambizioni neo-ottomane, mentre il faro politico del primo ministro giapponese Shinzō Abe è quella Restaurazione Meiji che nel XIX secolo gettò le basi di un vasto impero.
In molti casi, i leader nostalgici rifiutano i rovesci storici dei propri paesi. Se il primo ministro ungherese Viktor Orbán rivendica ancora le perdite territoriali subite dal regno di Ungheria all’indomani della prima guerra mondiale, il presidente russo Vladimir Putin ha definito il crollo dell’Unione Sovietica come «la più grande catastrofe geopolitica» del XX secolo.
La nostalgia sta animando tutti i movimenti nazionalisti o populisti di destra che stanno spaccando l’Europa occidentale, dalla Lega in Italia al Rassemblement National in Francia fino al Partito Popolare Danese in Danimarca.
da “L’età della nostalgia. L’emozione che divide il nostro continente”, di Edoardo Campanella e Marta Dassù, Egea, 2020