Il femminismo di tutto il mondo s’è messo d’accordo per farmi perdere una scommessa. I cancelletti di tutto il mondo, uniti, hanno deciso di smentire una mia previsione. L’hanno chiaramente fatto per farmi dispetto.
È andata così.
L’altra sera, mentre su Rai 2 andava in onda la prima puntata di “Una pezza di Lundini” – nuovo programma comico che ha fatto il 3 per cento di spettatori tra coloro con un rilevatore Auditel in casa, e il 101 per cento nella mia nicchia, dove c’era un entusiasmo da tre volte Natale – sui social ha iniziato a girare la foto del programma d’un festival culturale che non avevo mai sentito nominare (sicuramente per mia ignoranza e non perché in Italia ci sono cinquanta festival culturali al giorno, molti dei quali noti solo ai parenti degli invitati).
(Dico così perché sono invidiosa, è l’invidia del cachet, l’aveva teorizzata anche Freud).
Nel cartellone che viene condiviso, pronto a suscitare indignazione da screenshot, ci sono i migliori nomi della cultura italiana, quelli che fanno più sbigliettare: Recalcati, Baricco, Michele Serra (con Gianni Morandi: non fossi troppo invidiosa del cachet per uscire di casa, ci andrei subito).
È un programma che immagino abbia subito aggiustamenti, visto che ad agosto era stato annunciato Daverio (il cui nome è ancora nel programma sul sito del festival), ma non pare roba di cui lamentarsi. Se non si è addestrati a capire come funziona il mondo dei cancelletti.
L’indignazione del giorno ha già il cancelletto pronto: #tuttimaschi. Era la formula che usava la scrittrice Michela Murgia quando segnava, maestra severa, le prime pagine dei giornali con la penna rossa.
A margine, Murgia ha scritto ieri, a proposito dello scandale du jour, un articolo in cui sembrava dire che il cachet che davano a quei tutti maschi avrebbero dovuto darlo a lei (sto sicuramente proiettando la mia invidia), e invitava gli ospiti a ritirare la loro presenza, come Provenzano. Il ministro che non andò a un convegno perché erano tutti maschi, forse ve ne ricorderete, era una quarantina di scandali fa. (Chi glielo doveva dire, a Baricco e Serra, che dovevano prendere esempio da Provenzano).
Il dettaglio interessante è che il pezzo della Murgia è uscito su Repubblica, giornale di cui sono editorialisti praticamente tutti i tutti maschi in cartellone (tranne Sgarbi e Morgan, ma potrei essermi distratta).
Comunque.
Lo scandalo comincia con #tuttimaschi, poi viene parzialmente ritrattato: Baricco è accompagnato da una pianista femmina (me la immagino come la moglie di Springsteen che suona il tamburello).
La pianista viene presto liquidata come foglia di fico.
Poi arriva il comunicato. Il coraggio non se lo dava Don Abbondio, figuriamoci se se lo danno i festival culturali: mica dicono «Noi invitiamo la gente valutandone il giro d’affari, e non i gameti. Se volete essere invitate, diventate più sbigliettabili. Per ora, una Marzano smuove una frazione del pubblico d’un Recalcati». Macché.
Dicono: «L’attuale programma non riflette quello originario che avrebbe previsto eventi ideati per il Festival da artiste come Charlotte Rampling, Ute Lemper, Jane Birkin e Patti Smith, che sono state impossibilitate a partecipare per le problematiche Covid». Volevamo Jane Birkin, ma c’era il virus e quindi l’abbiamo sostituita con Sgarbi e Morgan. Fa molto ridere, se una non è proprio determinatissima a indignarsi.
Quando il ridicolo sembra aver toccato il suo apice, siamo pronte a rilanciare.
Arriva lo status di Facebook con cui Maggie Taylor si dichiara disposta a concedere interviste su quei manigoldi del Festival della bellezza. Maggie Taylor è la pittrice che ha dipinto la ragazzina che sta sulla locandina del festival. Festival che se ne sarebbe appropriato senza chiederle il permesso o pagarle i diritti, il che è lunare.
È indignata per questo, Maggie? In parte. E in parte perché l’hanno informata che sono #tuttimaschi. Ma, soprattutto, è indignata perché un festival che ha tra i suoi temi l’eros ha usato un ritratto (quello dipinto da lei) di minorenne.
A questo punto una persona non abituata ai deliri americani ha bisogno di pezze fredde: è un disegno, mica hanno insidiato una bambina. Beata quell’ipotetica persona, perché a noialtri contemporanei sembra ordinario che volino accuse di pedofilia per un disegno. Come diceva una battuta di Diane Keaton in Manhattan, un film di quando gli americani non avevano ancora liste dei temi su cui fosse consentito far battute, «Da qualche parte Nabokov sta sorridendo». (Se non l’avete mai sentita, è perché venne doppiata con «Sembra così lontano, il liceo»: c’è stato un tempo in cui eravamo più bigotti di loro, pare incredibile).
Come tutto questo mi ha fatto perdere una scommessa? Facile.
In “Una pezza di Lundini” i protagonisti sono due. Uno è il Valerio Lundini del titolo. L’altra è Emanuela Fanelli, che ha quella qualità peppinodefilippica di rubare la scena a quelli cui fa da spalla (era la moglie di Checco Zalone nel trailer di “Tolo Tolo”, quattrocento scandali fa: quella che le femministe pensarono bene di difendere – non si sa da che – chiamandola «quella povera donna»).
Insomma l’altra sera la Fanelli entra in scena e fa il suo monologo. Due minuti, e non si sa che sia. Forse una parodia dei gruppi Facebook di mamme («segua l’istinto, da donna come solo noi sappiamo fare»); forse il sequel naturale di “Eutanasia, mon amour” (il film indipendente che si girava dentro la trama d’un vecchio Zalone, e che non smetto di sperare venga realizzato davvero); forse un editoriale di Cristina Comencini; forse una performance della Abramović.
Di sicuro, è un po’ tutte noi alle prese con amici spiritosi quando cita Elena di Troia e chiosa «non facciamo battute da osteria, ché veramente, c’avete quarant’anni pe’ gamba, manco alle medie».
Di sicuro sono due minuti da strozzarsi, per il ridere o per l’indignazione – se solo l’indignazione non fosse monopolizzata dal festival.
E quindi niente «Fanelli ancella del patriarcato»? Neanche un «Fanelli nemica delle donne» piccino picciò?
Potremmo provare con «Fanelli vittima da difendere» (tutte in coro: quella povera donna): perché Lundini ha il nome nel titolo e lei no? C’entra forse il fatto che l’ideatore del programma, Giovanni Benincasa, è il noto criminale sessista che mise Flavia Vento sotto il tavolo di plexiglas?
Ecco, questa era la polemica su cui avevo scommesso. E ho perso solo perché un festival culturale ha invitato Alessio Boni invece di Charlotte Rampling.