Era l’agosto del 2016. Me lo ricordo perché mi ero iscritta in palestra per usufruire dell’aria condizionata, e sul tapis roulant guardavo film con Monica Vitti. Me lo ricordo perché erano mesi che tutti i figli delle mie amiche dicevano «andiamo a comandare», e io mi ero convinta fosse un modo di dire milanese di cui non m’ero mai accorta, e scrollavano le spalle e io pensavo: come sono esagitati ’sti bambini d’oggi.
Era l’agosto del 2016, e nello spogliatoio della palestra c’era una rivista abbandonata. Intervistavano questo sessantenne coi baffetti. “Andiamo a comandare”. Ah, quindi è una canzone. Ma perché nell’intervista c’è scritto che ha 22 anni? Santo cielo, come sono sempre sciatti i giornali italiani, pieni di refusi.
Era l’agosto del 2016, e il giorno dopo sul tapis roulant misi “Andiamo a comandare” su Youtube, e – una volta vistolo sul trattore, sosia di Giancarlo Giannini in “Dramma della gelosia” – l’ossessione per Rovazzi non mi passò mai più. Anche se ancora non sono convinta sia vero che è più giovane di certe bottiglie di latte scaduto abbandonate nel mio frigo.
Ci arrivo tardi, ma quando ci arrivo poi mi fisso, e adesso ci metto sei minuti, mica sei mesi, ad accorgermi che Rovazzi ha fatto una canzone (quest’anno non l’ha fatta, ci ha lasciati soli con Tommaso Paradiso, e neanche ha l’aria di sentirsene in colpa: screanzato).
Adesso lo seguo su Instagram, lui, la fidanzata, una volta ho persino guardato un’ora d’intervista a un suo ex amico sperando spiegasse perché avevano litigato: ho per la vita di Rovazzi l’interesse che a diciott’anni avevo per le vite di Brooke Logan e Ridge Forrester.
Certo, sono pur sempre una signora di mezz’età: mi rifiuto di scaricarmi Twitch, o come si chiama quella roba su cui Rovazzi fa non ho capito cosa (apparizioni, interviste, feste a sorpresa, balletti, cose di giovani: ho deciso di non saperlo). Praticamente Rovazzi usa Instagram per dire «domani faccio una diretta su Twitch» e poco più, e questo lo rende il più atipico degli influencer: gli altri non mangiano un tramezzino senza filmarlo e taggare chi ha spalmato la maionese sul pancarré (gli influencer in generale non pagano neanche il dentifricio, taggano pure quello), lui si dimentica di comparire per interi giorni, neanche fosse uno che ha un vero lavoro. (Non ditelo in giro, ma all’inizio non avevo neanche capito che Twitch fosse una roba diversa da Tik Tok, pensavo che lo pronunciasse male, sai com’è, questi sessantenni che si fingono ventiseienni).
Mi piace moltissimo anche la sua fidanzata, che ha l’aria perennemente scazzata e lo guarda sempre come fosse un imbecille, ma il suo amato imbecille. Fossi un produttore televisivo, farei fare subito ai due un “Casa Vianello”.
Oggi Rovazzi è sui giornali perché l’hanno inserito in Call of Duty, un videogioco che persino io (che di videogiochi ne so meno di Calenda) ho sentito nominare. La sua esaltazione, nei video in cui ci spiega che figata pazzeschissima sia stare in uno di ’sti cosi in cui si spara, è la prima conferma che sì, è molto giovane, e io sono molto vecchia. Per i tuoi pochi anni, e per i miei che sono cento, diceva quello.
Lo guardo spiegare com’è stare in un videogioco come le madri del Novecento guardavano gli scarabocchi dei figli dicendo «amore, è bellissimo», e fingendo si capisse perfettamente che quella sul foglio era una casa di fianco alla quale era atterrata un’astronave (le madri di questo secolo sono davvero convinte che il figlio sia il nuovo Pollock, mica devono fingere).
Altre volte la colossalità delle cose che fa non mi sfugge, nonostante l’abisso generazionale. Quando, per le sue canzoni (la mia preferita è quella con Gianni Morandi, vi sconsiglio d’invitarmi a cena perché poi ve la canto), fa dei video di qualche minuto, nei quali è evidente un budget che è quello di un’intera serie televisiva italiana.
O quando decreta la fine del giornalismo «Cavalli e segugi», che prende il nome dalla scena di Notting Hill in cui Hugh Grant si finge un giornalista per entrare nella catena di montaggio d’interviste per la promozione d’un film e vedere Julia Roberts.
Quel giornalismo lì, in cui pagavi un volo in prima classe e tre notti in un albergo che non si sarebbe mai potuto permettere a un giornalista delle pagine degli spettacoli, e quello – dopo aver parlato sette minuti assieme ad altri sette disgraziati come lui con un’attrice che rispondeva a domande quali «la mattina preferisce una colazione dolce o salata?» – ti metteva su quattro pagine l’intervista esclusiva alla protagonista del tal capolavoro, quel giornalismo lì non ha più senso da quando c’è Rovazzi.
Da quando c’è Rovazzi che, per una cifra che non so neanche immaginare (sospetto non s’accontenti di pernottare a scrocco al Four Seasons), va alla prima del film con Will Smith, e poi gira una scenetta in cui si ritrova a dividere per sbaglio la camera d’albergo con Will Smith, e dividono lo spazzolino da denti, e non so, dite che per il film di Will Smith è una promozione più efficace questa o un’intervista che cavallasegugiamente posso fargli io chiedendogli cosa pensi di Black Lives Matter e se sia felice che i figli seguano le sue orme?
Ogni tanto, negli ultimi quattro anni, mi sono chiesta cosa ci fosse scritto, sulla carta d’identità di Rovazzi, alla voce “professione”. Più spesso, ho rimirato col sollievo dello scampato pericolo un articolo dell’estate 2016. Un autorevole editorialista scriveva, a proposito di “Andiamo a comandare”, che «L’umanità si è rialzata dopo eventi oltremodo dolorosi e nefasti, ma sarà dura sopravvivere a questo cesello del ventiduenne Fabio Rovazzi». C’è gente persino più vecchia di me, che pure sono centenaria, e persino più lenta di me ad accorgersi dei fenomeni. Che consolazione.