Il referendum costituzionale si è celebrato pochi giorni fa. In molti si sono battuti con noi contro una riforma pericolosa per l’equilibrio e la divisione dei poteri, specialmente se seguita da una legge elettorale maggioritaria, per le ragioni spiegate già mille volte (i quorum previsti per la scelta dei componenti delle autorità indipendenti, per i membri della Consulta, per l’elezione del Capo dello stato e per modificare la stessa Costituzione). Con il rischio concreto, in breve, che le elezioni consegnino al vincitore quei famosi «pieni poteri» che l’attuale alleanza di governo avrebbe dovuto scongiurare (in teoria, sarebbe nata per questo).
È vero che non tutti i fautori del No hanno utilizzato questo argomento. Alcuni hanno preferito sottolineare altri difetti della cosiddetta riforma, vuoi per una diversa sensibilità al tema, vuoi perché timorosi di assumere una posizione antipatica, istintivamente respingente per un riformista e assai più tipica del fronte opposto – quella di chi grida sempre all’apocalisse, quale che sia la modifica costituzionale proposta – oltre che per discutibili valutazione tattiche (l’idea che alzare i toni sia sempre controproducente, a prescindere dal merito).
Sta di fatto che quelle preoccupazioni erano tanto fondate da essere candidamente riconosciute persino da una parte consistente del fronte del Sì, almeno all’interno del Partito democratico, ed erano infatti la principale ragione per cui, tra i correttivi richiesti, e non ottenuti, c’era per l’appunto una legge elettorale proporzionale (la quale, in quanto proporzionale, avrebbe garantito il fatto che la riduzione dei parlamentari non avrebbe tolto un grammo di forza ai quorum di cui sopra: per ottenere due terzi dei seggi ci sarebbero sempre voluti, più o meno, due terzi dei voti).
È dunque a dir poco sconfortante leggere che proprio adesso, a neanche quattro giorni dal voto, nel Partito democratico proprio i «riformisti» chiederebbero di tornare al maggioritario, come se niente fosse. O che Matteo Renzi insiste a dire di volere una legge elettorale con cui «la sera del voto si sa già chi ha vinto». O che secondo Romano Prodi «un sistema proporzionale condannerebbe l’Italia a una nuova stagione di instabilità».
Come sarebbe una «nuova stagione»? È dal 2011 che l’Italia non ha un governo che abbia superato i due anni di vita, e che non sia nato in parlamento da un accordo tra forze che si erano contrapposte alle elezioni. Dal governo Monti (2011), governo di larghe intese per definizione, al governo Letta (2013), cui inizialmente diede la fiducia anche il Pdl, ai governi di centrosinistra guidati da Renzi (2014) e Gentiloni (2016), che si reggevano grazie all’accordo con una forza di nome «Nuovo centrodestra», nata in Parlamento da una scissione del Pdl in procinto di ritrasformarsi in Forza Italia (mi scuso con i più giovani, questa è troppo complicata per spiegarla in un inciso), fino ai due governi Conte, M5s-Lega (2018) e M5s-Pd (2019), frutto entrambi di accordi post-elettorali tra avversari. E le cose non cambierebbero di molto neanche se risalissimo più indietro nel tempo.
Quella di Prodi è infatti la classica argomentazione dei fautori del maggioritario sin dai tempi del referendum del 1993. E il problema è proprio questo: che la ripetono da ventisette anni, nonostante nel frattempo, da quando abbiamo abbandonato il proporzionale, tutto abbiamo avuto meno che la stabilità. Tanto meno con il famoso Mattarellum, che già alla primissima prova, alle elezioni del 1994, consentiva a Silvio Berlusconi di presentarsi alla guida di ben due coalizioni, in parte auto-contrapposte (i candidati di Alleanza nazionale, che al Sud correva con Forza Italia sotto le insegne del Polo del Buongoverno, si presentavano al Nord contro i candidati del Polo delle libertà, vale a dire Forza Italia e Lega). Governo caduto peraltro in meno di un anno per una non imprevedibile rottura tra le sue componenti.
Non rifaccio tutta la storia perché mi sono già annoiato, basta dire che nessun governo da allora a oggi è mai arrivato alla fine della legislatura (l’unica parziale eccezione è la legislatura 2001-2006, dove vi fu un cambio di governo, ma sempre di centrodestra e sempre a guida Berlusconi). In pochissimi, come si è visto, sono durati più di un paio d’anni.
È dal 1993 che i sostenitori del bipolarismo di coalizione dicono che «la sera del voto si deve sapere chi ha vinto», che devono essere gli elettori a scegliere direttamente il governo e anche il presidente del Consiglio (il che sarebbe peraltro incostituzionale, ma si sa che da noi vale per la Costituzione quel che vale in generale per tutte le leggi: si applica ai nemici e si interpreta per gli amici). Ora anche Renzi torna a ripetere questo ritornello sul governo scelto dagli elettori la sera del voto.
Proprio lui però dovrebbe ricordare che a Costituzione vigente, con due Camere che danno entrambe la fiducia al governo e sono elette con sistemi diversi (il Senato su base regionale e da una platea più ristretta), non c’è legge elettorale al mondo che possa offrire una simile garanzia. E non può non ricordarselo perché era esattamente la ragione del collegamento tra Italicum e riforma costituzionale ai tempi del suo governo (nonché, ma è una mia opinione personalissima, la ragione per cui la sua pessima legge elettorale finì per affossare anche una riforma costituzionale sensata).
Sappiamo che nella politica italiana, in tempi di egemonia populista, i principi contano fino a un certo punto, a cominciare dal principio di non contraddizione (tra tutti, forse il più vilipeso e negletto). Ma almeno da parte dei pochi riformisti che ancora si oppongono a un simile andazzo, obiettivamente, sarebbe lecito attendersi un filo di coerenza in più. Non ideale, per carità – questione moralistica e difficilissima da definire – ma logica. Parlo di pura e semplice coerenza logica.
Senza considerare l’ultima e più incredibile contraddizione, e cioè che siano proprio coloro che vorrebbero vedere il Pd affrancarsi dall’abbraccio con i populisti grillini a chiedere una legge elettorale che lo renderebbe politicamente inevitabile.