Sono passati tre anni esatti dal 14 settembre del 2017, il giorno in cui Minimum Fax pubblicò Teoria della classe disagiata, il libro, in realtà nato sulla rivista IL del Sole 24 Ore un anno prima, che segnò l’esordio di Raffaele Alberto Ventura in libreria. Eppure, se siamo sinceri con noi stessi sembrano passati almeno 30 anni, se non di più.
Nel frattempo, intorno a noi il mondo si è ristretto dalla dimensione globale a quella delle nostre case, il rigurgito populista si è stabilizzato nei centri di potere di mezzo mondo e quello che fu Escathon ha proseguito il suo lavoro certosino di analisi.
Lo ha fatto prima con La guerra di tutti (sempre Minimum Fax, 2019) e infine con quest’ultimo Radical Choc, che esce proprio oggi per Einaudi, chiudendo una “Trilogia del collasso” — come la definisce lui stesso — che ha il merito, seppur amarissimo, di definire con una lucidità accecante l’esatta dimensione della tragedia sociale, politica, economica ed epistemologica che ci siamo apparecchiati sulla tavola iperaffollata in cui viviamo e che ci stiamo apprestando a vivere fino in fondo.
Raffaele Alberto Ventura, oltre a essere un fine osservatore dei nostri tempi, è anche un perfetto figlio della sua generazione, quei millennial che hanno visto il mondo di prima e che sono diventati maggiorenni mentre le torri gemelle crollavano e la polizia sparava sui manifestanti di Genova.
La sua scrittura è analitica come un saggio accademico, ma anche ricchissima di riferimenti culturali che la rendono gustosa, da “Conan il Barbaro” a “Fracchia la belva umana”, da Voltron a ”l’Odio”, senza la minima paura di mischiare alto e basso, per fortuna.
Il «Jusqu’ici tout va bien» della celebre parabola de “L’Odio”, film culto che curiosamente proprio in queste settimana ripassa nei cinema parigini per festeggiare i suoi 25 anni, è una leva interessante per parlare di questo “Radical Choc”. In fondo è stato proprio questo, il Fino a qui, tutto bene, il ritornello di quest’ultimo quarto di secolo. Ce lo siamo ripetuti tutti, all’inizio sentendoci dei fighi con questa frase da maglietta.
Poi piano piano abbiamo iniziato a pensarlo più sommessamente, ripetendolo più sottovoce, sempre più simili a soldati al fronte di una guerra che prima o poi ci avrebbe scannato tutti.
Stavamo cadendo. Stava succedendo veramente, e quella frase effettivamente ci rincuorava a ogni piano, quanto meno fintanto che la caduta continuava. Ma se 25 anni fa l’atterraggio era un suolo lontano, quasi quanto quello in cui si spiattellava quella simpatica canaglia del coyote Willie emettendo la celebre nuvoletta seguita da un puff attutito dalla distanza, oggi, ancor più dopo i mesi che abbiamo vissuto, quel suolo non solo lo vediamo sempre più vicino, ma ne sentiamo l’odore.
E non giallo come la sabbia del deserto di Willie. È nero e duro come l’asfalto di una megalopoli.
Secondo RAV, l’atterraggio è ormai vicino. «Il nostro tempo è passato e il mondo in cui siamo cresciuti appartiene già a ieri», scrive dopo una lunga, appassionante (ma, attenzione, non semplice) cavalcata attraverso la Storia. Se ancora vi state chiedendo di che diavolo di atterraggio e di catastrofe stiamo parlando, evidentemente non siete dei millennial.
La risposta è esattamente quella di fronte alla quale avete sorriso con paternalismo negli ultimi anni, come davanti ai ragazzini ingenui del Kollettivo coi capelli lunghi e le cannette in tasca: la fine del capitalismo, o quantomeno della sua stagione democratica, che poi per le nostre vite fa male nello stesso modo.
Nato sulla capacità di rendere possibile la storica promessa del Leviatano, ovvero avere le spalle abbastanza solide per creare sotto di sé una società stabile e sicura, in grado di abbattere ogni tipo di rischio, il mondo che ci siamo fatti costruire intorno negli ultimi secoli e che abbiamo chiamato Moderno, nel tavolo di poker della Storia si sta avvicinando all’ultima mano, quella in cui deve fare vedere il punto, o passare.
E se finora è valso un grandioso bluff a tenere insieme tutti i pezzi di un puzzle che già da decenni mostrava segni di cedimento, ora probabilmente non basterà più.
Il trasferimento della crisi da un tavolo all’altro — questa, secondo Ventura, è stata alla fine la natura del bluff secolare del sistema che ci ha convinto di non avere alternative, di essere inscalfibile e destinato all’eternità, ha finito i tavoli su cui giocare.
Fa male? Sì. È l’ennesima lezioncina di un hipster millennial? Assolutamente no. In quest’ultimo mattoncino della sua trilogia, Ventura pur snocciolando citazioni a mitraglia si presenta al massimo della sua eleganza, ma non si mette in cattedra.
E come potrebbe? Dietro le cattedre ci sono altri e RAV nasce come un outsider su una versione poco più vecchia di quello stesso web che ora sta accerchiando i competenti chiedendone lo scalpo.
Quello stesso web che ora è sempre più territorio di caccia dei battitori liberi che stanno estinguendo ogni tipo di Ragione, dai sempre più assurdi e involuti complottismi, ai sempre più maldestri populisti, baricchiani “barbari” che noi continuiamo a prendere con sarcasmo, ma che sono quasi arrivati al centro dell’Impero e, ci consiglia RAV, forse è ora di prendere sul serio, non nella sua sostanza, per convertirci a QAnon, ovviamente, ma nella sua essenza, come sintomo di una irrazionalità del sistema che da dentro non riusciamo a vedere, ma che visti gli scossoni, è difficile credere che non sussista.
Nella sua esposizione RAV è elegante, dicevo. Sì, elegantissimo, dell’eleganza in livrea del cameriere di alto bordo perché come dicevo il suo non è il gesto dell’insegnare, bensì quello di portare il conto all’ultimo tavolo rimasto, il nostro.
Un conto salatissimo, probabilmente insostenibile come il costo che la classe dei competenti ormai richiede per continuare a esistere e amministrare ciò che resta del mondo alla fine delle sue stesse promesse, che secondo RAV ormai sono in gran parte frustrate.
Non si riesce a capire se portandoci il conto sul tavolo RAV sorride sotto la sua barba rossa, io credo di no, ma in fondo non ha alcuna importanza. L’importanza di “Radical Choc”, come a questo punto di tutta la “Trilogia del collasso”, è l’aver messo nero su bianco, tappa dopo tappa, il processo di sclerotizzazione della nostra società, un processo che a vederlo così ben ordinato sul tavolo, potente e insieme terrificante come una scala colore, rivela molto chiaramente la sua naturalezza.
È questa sua naturalezza, in fondo, insieme ovviamente alla abilità e alla lucidità di Raffaele Alberto Ventura, che ci permette di scommettere che questo, così come i due precedenti suoi lavori, sono fotografie scattate per restare.
Perché quella che è riuscito a ritrarre RAV sembra proprio la Storia, un filo che ci eravamo illusi fosse quasi finito, ma che in verità non finisce affatto e che, per la prima volta dopo anni, vediamo finalmente svolgersi e dipanarsi. Ventura non è un profeta, ma la luce che getta nel pozzo ci permette di intravedere qualcosa del futuro che ci aspetta: lo Choc sarà radicale.
L’assaggio che abbiamo avuto in questi mesi di pandemia è abbastanza chiaro ed è proprio questo il conto, elegantemente ripiegato, che ci porta al tavolo RAV su un piattino d’argento: la fine ultima di una società costruita sulla pretesa infallibilità e oggettività dei mantra della competenza e della tecnica è il loro trionfo, o la loro morte.
Nel primo caso, la società che gli si costruirà attorno sarà una società in cui la democrazia sarà definitivamente archiviata in solaio insieme a giochi che da piccoli ci hanno appassionato ma che ora non ci servono più.
Nel secondo caso, sarà un bagno di sangue. Qualche anno fa avremmo potuto concludere, perfino credendoci veramente, che sta a noi scegliere quale strada prendere. Oggi, sinceramente, ci sentiamo più intrappolati in quel famoso treno che si stava lanciando a tutta velocità contro un muro. E le porte sono chiuse.