Gli aggettivi sono pericolosiLettera alla mia unica lettrice

Queste parole sono “pietre sopra” perché sono posate, per esempio sulla persona, ma anche sui paesaggi e su ogni cosa. Vacillano, risentono degli umori e della volubilità di chi li applica e degli umori e della volubilità di chi li riceve. Sono pietre sopra perché significano. Perché sono intenzioni

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E allora, perché mi offro in lettura alla mia unica lettrice? Non è per rammarico, è per aspirazione, e perché è vero.

E vorrei, veramente vorrei, sì, vorrei ch’ella fosse per me irraggiungibile. Come si dice? Inarrivabile. Inafferrabile, anche. Come in testa al corteo, vacillante sulla portantina a spalla, e io in coda a tutto, col piffero in mano, non riesco nemmeno a raggiungere la banda che da più vicino la segue, ma nemmeno ne faccio parte della banda, è solo un sogno.

Invece, meglio ancora, cambiamo strumento, suono la tromba straziante, emetto urla d’ottone. Dire la musica, soprattutto dirla con gli aggettivi, non si può, si diventa bombastici: ridondano ampolle, si soffia nel fiasco tronfio, anzi nella damigiana, quella verde.

La tromba, questo strumento che fa di ogni principe (e io lo sono) un rospo (lo sarò) con in faccia il mappamondo delle guance, per non dimenticare che il mondo è una palla, e lei è inarrivabile.

A che serve scrivere? A questo: a scrivere.

Quando quello che realmente accade lo scrivi come accadrebbe irrealmente, allora sì che lo fai esistere. Cioè, in natura, gli aggettivi non esistono se non in natura umana, e nello scrivere sarebbero superflui però esistono, essendo di natura letteraria (sono superflui quindi sono voluttuari, ottimo aggettivo per gli aggettivi pieni di voluttà, appunto letteraria).

Nella vita non sono granché pericolosi, nella scrittura sì: il sostantivo o ci casca dentro o ne è sommerso. Gli aggettivi sono anche pietre sopra, ora lisce ora scabrose, ora leggere come la pomice che però è scabrosa, ora pesanti come il marmo che però è sorprendente, anche liscio se tagliato, e se ben scolpito pare anche un velo, anche carne stupenda con le sue vene pulsanti di svariati colori (certi tagli di marmo rosso damasco sembrano tagli di bistecche). Sono pietre sopra, gli aggettivi, cioè sono posati, per esempio sulla persona, ma anche sui paesaggi e su ogni cosa, e già vacillano, risentono degli umori e della volubilità di chi li applica e degli umori e della volubilità di chi li riceve (a seconda del cambio di tempo o di stagione o di luce, per esempio). Sono pietre sopra, significano: ecco, con un aggettivo ho detto tutto (anche se è niente) e finiamola qui (anche se non finisce lì). Sono intenzioni, una su tutte: di chiudere il discorso. Anche se qui continuo.

Voglio dire: straziante. Nella realtà il suono della tromba non è straziante e basta, è tutti gli aggettivi vacillanti che volete e potete (cose, fatti, eventi, i loro sostantivi, nella realtà, nascono senza aggettivi, poi, appena appena nati, sono loro, i sostantivi, al contrario di quel che accade in realtà, ad alimentare la vanità e voluttà dei già ben pasciuti ma avidi aggettivi, e a farseli crescere addosso).

Il suono della tromba è il suono della tromba e del trombettista (il trombettista suona, strumentale suona, e ogni trombettista emette un suono suo). Nell’irrealtà dello scrivere è straziante il suono se questo è il suo aggettivo (qui lo è, l’ho scritto sopra), lo faccio diventare straziante (perché lo lascio scritto: suono straziante della tromba), cioè leggendo non senti il suono della tromba, leggi l’aggettivo del suono.

E questo mi fa comodo perché quel suono, che nella realtà è inevitabilmente reale ossia aggettivato variamente e come vi pare (l’orecchio organizza aggettivi intorno al suono?), nell’irrealtà letteraria non è che un colpo secco, questo: straziante (la scrittura in rapporto ai suoni è una sterminata sezione ritmica?).

Un colpo, come se il rigo fosse una canna cava, una barretta lignea, un tubo, un binario sul quale premere l’orecchio, che è la testa di feltro di un mazzuolo (si può parlare di una lettura a orecchio?). La tromba scritta è muta e il suo aggettivo parla per essa (parlano e sparlano di ogni cosa gli aggettivi scritti, e di ogni persona, e d’ogni sentimento o di albero o di roccia o di conchiglia, di tutto).

Tutto questo per dire che mi piace immaginarmi inascoltato ma non perché sia un mio merito o perché ce l’abbia fatta, no, semplicemente perché lei, tu, mia unica lettrice, sei irraggiungibile, così io ti decreto. Non sapevo di averne così tanto bisogno, invece ne ho bisogno.

Ah, quanto mi piace questa accettazione: che tu, o cima, o vetta, o altezza (e perché no, reale?), o ideale, o meta, o sogno (e perché no, regale?), sia per me inaccessibile, non agevole, impenetrabile. Sono soddisfazioni, è una soddisfazione, non so come dire cos’è (però mi pare che fin qui l’abbia un po’ detto).

Insomma è un desiderio soddisfatto, continuamente soddisfatto, quasi il famoso godimento all’infinito (dico “quasi” perché trattasi di infinito a misura umana, un infinito del quale con fierezza qui vanto la scoperta).

Ci chiedono se siamo complici in lontananza e in infinito, il nostro infinito delle nostre misure. Come rispondiamo? Mettendoci, in lontananza e all’infinito, a nudo: certo che sì.

Intanto il suono (senti?) della tromba si propaga sempre verso un inarrivabile qualcosa, uno sfuggente chissà che, non so, un ombelico, inseguito sempre da quel suono straziante e mai raggiunto.

Il violoncello no, il violoncello è uno strumento di prossimità, di vicinanza, di avvolgimento, di gola strofinata con la gola, è un convegno di mani e di polpe, di dita vibranti, uno strumento al quale dedicarsi tra una tromba e l’altra.