Dal 1970 le dimensioni della popolazione di mammiferi, uccelli, pesci, anfibi e rettili hanno registrato un calo medio del 68 per cento. A dircelo sono i risultati del rapporto Living Planet 2020 presentato nei giorni scorsi dal WWF e dalla Zoological Society of London (ZSL), che che da 50 anni monitora l’abbondanza della fauna selvatica globale (attualmente controlla 4.392 specie e 20.811 popolazioni).
Una delle cause principali della perdita della biodiversità, spiega il rapporto, è il degrado e la trasformazione degli habitat naturali degli animali in terreni per la produzione agricola. Noi umani abbiamo alterato il 75 percento della superficie terrestre non ricoperta di ghiaccio: solo il 25 percento può essere ancora considerato deserto.
Ovviamente neanche la flora se la passa bene: il rischio di estinzione delle piante è attualmente paragonabile a quello dei mammiferi e superiore a quello degli uccelli. Nella migliore delle ipotesi, spiegano gli scienziati, queste perdite impiegheranno decenni per invertire la rotta, mettendo a rischio una miriade di servizi ecosistemici da cui gli esseri umani dipendono.
«Negli ultimi 50 anni il nostro mondo è stato trasformato dall’esplosione del commercio globale, dei consumi e della crescita della popolazione umana, oltre che da un grandissimo incremento dell’urbanizzazione – si legge nel report – queste tendenze di fondo stanno portando alla distruzione e al degrado della natura, nonché al sovrasfruttamento delle risorse naturali a un ritmo che non ha precedenti. Solo un pugno di paesi conserva la maggior parte delle ultime aree selvagge rimaste e il nostro mondo naturale si sta trasformando più rapidamente che mai».
Oltretutto questa progressiva scomparsa di biodiversità sta minando la maggior parte degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, compresi quelli dedicati alla sicurezza alimentare.
Se dunque, l’attuale trend proseguirà inalterato, i sistemi e gli assetti naturali, sociali, politici e umani raggiungeranno il punto di non ritorno entro pochissimi anni. È alta la probabilità che molti di noi vedano la fine della civiltà umana per come la conosciamo.
Tuttavia, è ancora possibile fermare e invertire il processo, e anche il rapporto Living Planet 2020 lo conferma, ma è necessario tenere i riflettori sempre accesi e per farlo dobbiamo assumerci tutte le responsabilità, consapevoli che l’economia circolare non basta.
Lo sviluppo economico è sostenibile se riesce a coniugare l’incremento della quantità di risorse prodotte e consumate con un miglioramento della qualità della vita, legata alla disponibilità di servizi e ai valori di giustizia, libertà e pace. Si tratta di un concetto multidimensionale che riguarda l’ambiente e il capitale naturale, la demografia, la produzione e il consumo, il funzionamento stesso della società, e che va quantificato anche in termini atemporali.
I nostri stili di vita devono certo cambiare, e in tal senso le buone pratiche del riutilizzo, del riciclo e della re-immissione costituiscono un importante inizio, così come sarebbe un ottimo percorso anche rendere la produzione e il commercio alimentare più efficienti ed ecologicamente sostenibili, ridurre gli sprechi e favorire diete più rispettose dell’ambiente, cosa tra l’altro anche molto più salutare. Tuttavia, questa impostazione non arriva a ricomprendere l’uomo come punto di ripartenza.
La nostra unica speranza è ripartire dall’uomo: dobbiamo ridurre il nostro impatto negativo e aumentare quello positivo sfruttando tutto il potenziale di cambiamento che abbiamo accumulato in secoli di scienza e tecnologia.