Ora che è andato in pensione dalla magistratura ed è stato pensionato dal Consiglio superiore della magistratura con una decisione che i suoi sostenitori hanno contestato e che l’interessato potrebbe impugnare – ma si vedrà in seguito – tutto accadrà, ma non che il dottor Piercamillo Davigo manchi di fare sentire la sua opinione e il suo consiglio sui temi della giustizia. Adesso però che ha abbandonato la toga, vale la pena di riflettere sulla sua figura non solo alla luce della cronaca politico-giudiziaria, ma anche della letteratura, di cui non sappiamo se abbia passione.
Ci si potrebbe divertire, ad esempio, a leggere la figura di Piercamillo Davigo attraverso quella del Presidente Riches nel “Contesto” di Leonardo Sciascia, cioè attraverso la sua idea della colpa come condizione universale e del giudizio come sacramento e come mistero liturgico, che dà corpo alla giustizia nell’atto stesso di pronunciarla. L’uomo è sempre colpevole ed è “convertito” alla giustizia dalla condanna, come nella transustanziazione – fa dire Sciascia a Riches – il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo.
Il giudice Riches, nel “Contesto”, spiega che postulare la possibilità dell’errore giudiziario significa rinnegare la fede nella giustizia, soprattutto nel senso che di questa giustizia non laica, ma religiosa, si può avere solo fede e non ragione. E aggiunge che questa giustizia siede su un perenne stato di guerra, in cui «l’umanità risponde del singolo e il singolo dell’umanità» e su questa base giunge a riconoscere che la forma più perfetta della giustizia è la decimazione.
Non sembra di essere troppo distanti dalle parole più sbrigative e prosaiche di Davigo sulla non equivalenza tra assoluzione e innocenza («Le ingiuste detenzioni sono quelle in cui uno viene colpito da un provvedimento di custodia cautelare e poi viene assolto. Il che non significa che siano tutti necessariamente innocenti, anzi»), sulle garanzie processuali come titolo di impunità («il codice di procedura penale è scritto per farla fare franca ai farabutti»), sulla presunzione di colpevolezza come principio di economia processuale («l’unica parte buona del processo è il pubblico ministero, per definizione legislativa. Le parti private fanno i propri interessi. Oggi conviene delinquere, non pagare i debiti, impugnare le condanne. Non si ha niente da perdere. Invece bisogna incentivare i comportamenti virtuosi»).
Riches e Davigo sembrano entrambi devoti a un’idea della giustizia totalmente al di là (o al di qua) del diritto, sacerdoti togati di un’Inquisizione che non può che essere universale come il male con cui sa di doversi misurare e altrettanto assoluta nelle pretese. Ma le somiglianze tra il Presidente Riches e il Presidente Davigo si fermano a queste corrispondenze ideologiche, e non antropologiche, a fronte della sproporzione tra la profondità tragica del personaggio di Sciascia e l’acribia burocratica e leguleia di un magistrato, che in tanti anni di onoratissima carriera ha incarnato un manipulitismo che eccita i lettori del Fatto Quotidiano, ma probabilmente non soddisfa quelli dell’Ecclesiaste, e che corre infaticabile in caccia di corrotti e tangentari e dei loro immancabili complici politici, ma riduce la lotta tra il bene e il male e la natura abissale della loro alternativa a una scrupolosa contabilità di “piccioli” rubati e restituiti, di cavilli codicistici.
Forse Davigo si offenderebbe a sentirsi paragonare al Presidente Riches. Ma forse anche viceversa.