Era già tutto previsto: in un amen Luca Palamara è stato messo alla porta dai suoi colleghi che hanno dimostrato come sia possibile avere una sentenza in tempi ultra-celeri.
A dire il vero gli habitué dei palazzi di giustizia sanno che la velocità dei tempi di un giudizio è concetto assai variabile e legato alle esigenze del giudicante che sono a loro volta scandite dagli orologi implacabili della prescrizione o della scadenza dei termini di custodia cautelare degli imputati detenuti.
Nel caso Palamara l’orologio che scandiva il tempo era quello dell’incombente pensionamento di Piercamillo Davigo, componente dell’organo disciplinare, che compie 70 anni a fine ottobre e dovrà appendere la toga al chiodo, mentre pare che non riporrà in soffitta la sua poltrona al Consiglio superiore della magistratura fino alla scadenza del mandato. Un precedente unico di pensionato che mantiene l’uso del suo ufficio e il potere di giudicare da ex i suoi colleghi ancora in funzione.
Palamara a dire il vero aveva eccepito, provando a richiamare qualche non trascurabile principio di natura costituzionale come il giudice naturale, ma niente da fare, il processo è stato celebrato di gran carriera prima del raggiungimento della pensione per l’ex pm del pool Mani pulite.
Il Procuratore Generale della Cassazione Pietro Gaeta che ha chiesto e ottenuto la radiazione dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati ha parlato di «bolla mediatica» in riferimento alle denunciate anomalie del procedimento rilanciate da alcuni media.
In effetti, l’andamento del processo non ha presentato particolarità rispetto a ciò cui sono abituati gli ordinari imputati a partire dalla falcidie dei testimoni a difesa per finire all’uso di intercettazioni in teoria inutilizzabili perché nei colloqui captati erano presenti ben due parlamentari il cui ascolto doveva essere autorizzato dal Parlamento e perché disposte per una ipotesi di corruzione da cui l’ex magistrato è stato prosciolto.
Nulla che non si sia già visto nella quotidianità dove ad esempio è ormai prassi codificata l’intercettazione dei colloqui dei difensori coi loro assistiti, ancorché espressamente vietate per gli stessi motivi di tutela di prerogative costituzionali che investono i parlamentari e le loro comunicazioni.
Il Csm, ricalcando un diffuso orientamento giurisprudenziale, ha ritenuto utilizzabili delle prove in teoria non recepibili, in quanto raccolte casualmente.
Il complesso delle norme e delle sentenze di legittimità ha disegnato un sistema “barocco”, tipicamente italiano capace di tenere insieme, con finezza gesuitica, la tutela (apparente) dell’indipendenza dei parlamentari con la furia dell’inquisizione che deve arrivare alla “verità”.
Così se è vietato intercettare i parlamentari o riversare in un processo le loro conversazioni – nondimeno se l’intercettazione è “casuale” – senza l’autorizzazione o la ratifica del parlamento fortuita, oplà, il divieto non c’è più e ciò che è proibito diviene lecito.
Nella vicenda Palamara, il caso volle che gli agenti di polizia giudiziaria non avessero ascoltato tempestivamente la telefonata con cui lo sventurato ex King-maker dei palazzi di giustizia convocava la sua compagnia all’Hotel Champagne (un nome che da solo evocava perdizione) per la fatale sera del 9 maggio 2019 per discutere l’elezione del nuovo procuratore di Roma.
Questa grave dimenticanza, che la registrazione dei flussi ha puntualmente e insuperabilmente documentato, si è risolta in un incredibile colpo di fortuna per gli inquirenti che così hanno potuto utilizzare intercettazioni altrimenti destinate al macero, se gli agenti fossero stati più solerti. Cose italiane su cui pare incredibile che si siano affaticate alcune delle migliori menti giuridiche.
Dunque nihil novi, nessun trattamento particolare, piuttosto quella di Palamara è la cronaca di una morte annunciata, dura e senza ripensamenti. Resta invece sul tavolo il dopo, la valutazione delle ricadute della vicenda e soprattutto della sentenza (e di quelle che seguiranno contro altri magistrati incolpati).
Servirà il trauma a correggere le gravi distorsioni e il degrado etico che le intercettazioni del caso hanno fatto affiorare?
È lecito dubitarne: passato l’impatto doloroso, sembra che in alcune componenti della magistratura prevalga solo la voglia di voltare pagina o addirittura di una lettura revisionista della storia recente. Sono eloquenti in tal senso due interviste a due esponenti di vertice delle correnti di Magistratura Indipendente, Paola D’Ovidio, e di Area Eugenio Albamonte.
La prima, esponente di una delle correnti più colpite dallo scandalo, denuncia come un ribaltone l’indagine giudiziaria con cui nella sostanza si sono sottratti posti apicali alla sua corrente in favore di Area.
Non c’è molto da sperare da un tale modo di ragionare (peraltro curioso che ancora nessuno abbia spiegato come mai Ferri, un parlamentare e magistrato in aspettativa, potesse essere il leader di un’associazione di magistrati in attività).
Meglio il dolente atto di dolore di Albamonte, consapevole della gravità del momento, che auspica una spinta di rinnovamento comune di avvocati e magistrati più avvertiti, un vecchio sogno. Certamente qualcosa va fatto, avendo però consapevolezza che il desolante scenario presente, richiede misure eccezionali e riforme reali, senza inutili tabù.
Ad esempio se è vero che la nuova riforma del Csm voluta dall’improvvido Bonafede può consegnare l’autogoverno della magistratura alla componente dei pm, allora si deve avere il coraggio di sedersi a un tavolo per parlare di separazione delle carriere come strumento di sterilizzazione e di protezione della componente dei giudici, il cui presidio di credibilità rischia di essere spazzato via dallo strapotere di procure non sempre all’altezza del delicatissimo ruolo. Coraggio, allora.