Lo spettacolo più figo che c’è in circolazione io l’avevo visto tre anni fa. Non perché sono raccomandata: perché è uno spettacolo che gira da dieci anni.
Sono tornata a vederlo, che è una cosa che non facevo da quando sui palchi del teatro c’era il non padre (il secondo padre, l’altro padre, il patrigno: come vogliamo chiamarlo?) di quello che sta sul palco adesso.
Quello che sta sul palco adesso si chiama Emanuele Salce, è il figlio di Luciano, che fu il regista di Fantozzi, ma pure del Federale, della Voglia matta, d’un sacco di roba magnifica che se non la conoscete dovete smetterla di perdere tempo con quest’articolo e correre a colmare quelle voragini di lacune (su Prime si trova un bel po’ di storia del cinema italiano, non avete neanche la scusa dei dvd introvabili in cantina).
Quando Emanuele era piccolissimo sua madre si mise con Vittorio Gassman, che se devo spiegarvi chi fosse mi metto a piangere, quindi ora vi chiedo se devo spiegarvelo e voi mi dite di no pure se è sì (che è una battuta che Manfredi diceva a Gassman in “C’eravamo tanto amati” – ma mica c’era bisogno che lo specificassi, no?).
Ha avuto due padri ingombranti nonché insofferenti alla paternità; un altro avrebbe comprato una o più case al mare a uno psicanalista, Salce ha deciso di fare della sua sbilenca vita di figlio uno spettacolo, e lo porta in giro da dieci anni.
Come andassero le cose a casa Gassman non c’è bisogno d’immaginarlo, perché Emanuele rifà Vittorio uguale preciso, hanno la stessa voce, è un interessante caso di dna non biologico ma culturale.
Non si sforza, gli viene naturale come verrebbe a chiunque fosse cresciuto ascoltando a tavola uno per cui le conversazioni di tutti i giorni erano «Gassman legge il menù», con quell’impostazione, quella dizione, quel timbro; il ragazzo assorbiva, purtroppo: anni dopo ai provini l’avrebbero assai preso per il culo (tutto materiale, naturalmente).
Che dovesse dirgli di fare i compiti o di sparecchiare, Vittorio glielo diceva con quella voce lì, che in scena Emanuele rifà mentre dice cose quotidiane come «E adesso vattela a pigliare nel culo in camera tua».
Tra le molte ragioni per amare Gassman, c’è anche il suo condivisibile convincimento che i bambini non abbiano una conversazione interessante, tuttavia è possibile che l’idea di «Gassman legge il menù» gli fosse venuta da lì, dall’incontro con gente che, invece di guardarlo come fosse Gassman, lo guardava chiedendosi «Ma come parli, che poi me lo attacchi pure e a scuola mi sfottono».
Ma Gassman non c’è, nello spettacolo, così come non c’è Luciano Salce. Ci sono due loro messaggi in segreteria, ma per il resto lo spettacolo sono gli altri. È tutta la commedia all’italiana che c’è nel racconto dei due giorni in cui i due morirono.
Il quasi sconosciuto che chiama Emanuele per fargli le condoglianze quando lui ancora non sa che Luciano è morto. La roscia che non gliela dava, e l’occasione è perfetta per chiamarla, «un padre non muore tutti i giorni, è una carta che possiamo giocarci». Il cassamortaro che vuole fargli scegliere la bara più costosa. Lo zio che non riconosci. Il centralinista dell’ambasciata cubana che non capisce cosa voglia Emanuele, che chiama cercando di contattare Diletta e Vittorio, all’Avana per un festival di cinema. il cadavere vestito da Sbirulino.
E, undici anni dopo, la veglia di Vittorio. Diletta in pigiama che rifiuta di cambiarsi. Gli sconosciuti che si spacciano per grandi amici. Gli imbucati che stappano i vini migliori. Il grande attore che si guarda intorno, di fronte al letto col morto, con l’aria «sì, sono io, e sto per dire qualcosa».
E a sera tutti, le migliori menti della cultura romana, che – fingendo d’accendere il televisore solo per vedere i servizi sul defunto – s’assembrano, col cadavere di là, per vedere l’Italia che gioca agli Europei, e senza che il senso del ridicolo li soccorra esultano contriti: abbiamo vinto perché Vittorio proteggeva la nostra porta.
E al funerale, i tre prelati che litigano per chi debba celebrare: quelli che hanno inventato la commedia all’italiana erano dei tali colossi che hanno continuato a produrne anche da morti.
E poi c’è la terza parte dello spettacolo, che è la Disperato erotico stomp di Emanuele Salce. Perché è facile essere esilaranti ed eleganti parlando di giganti, ma – esattamente come una canzone esilarante e straziante su una sega sapeva scriverla solo Lucio Dalla – provateci voi a far ridere col materiale che Salce affronta nella terza parte dello spettacolo. Materiale assai più innominabile d’una sega, e del quale quindi non parla mai nessuno. Me compresa.
Se volete sapere cos’è, dovrete fare questa cosa da vita di prima: andare a teatro. (Ci si siede una poltrona sì e una no: mi sbaglierò, ma mi sembra meno contagioso del metrò).
Lo spettacolo s’intitola “Mumble mumble”, che è il modo in cui il piccolo Salce bofonchiante che non voleva saperne della dizione e del diaframma veniva soprannominato in casa Gassman. È al Martinitt di Milano fino al primo novembre. Si piange dal ridere, non dite che non v’ho avvisato.