L’attentato di giovedì scorso nella chiesa di Notre Dame di Nizza, l’assassinio di Samuel Paty e l’attacco di fronte agli ex locali di Charlie Hebdo, tre atti jihadisti in poche settimane, mostrano quanto la definizione di «Idra islamista» coniata dal presidente Emmanuel Macron sia calzante. Il bilancio avrebbe potuto essere più pesante, visto che, sempre nella giornata di giovedì, un altro uomo, vestito con abiti tradizionali che mascheravano un giubbetto antiproiettile e soprattutto un lungo coltello, è stato arrestato a Lione. Secondo la polizia era pronto a un attacco simile a quello di Nizza.
Un aumento dell’attività jihadista che mostra i limiti della risposta securitaria del governo francese, che dopo i fatti di Conflans-Sainte-Honorine aveva lanciato una campagna di comunicazione piuttosto aggressiva, con l’obiettivo di rassicurare l’opinione pubblica. In prima linea, il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin, che aveva spiegato in un’intervista a Tf1 il motivo del suo iperattivismo: «Il presidente vuole che acceleriamo le azioni antiterrorismo, e che, a volte, le rendiamo pubbliche». Il riferimento era ai molti attentati sventati dalla DGSI (i servizi segreti interni) e dalle forze dell’ordine, che molto spesso non vengono pubblicizzati.
Darmanin ha elencato anche una serie di atti concreti, non necessariamente legati all’attentato. In primo luogo il ministro ha chiesto e ottenuto la chiusura della moschea di Pantin, comune confinante con Parigi, perché il suo «dirigente aveva cominciato a far passare il messaggio che Samuel Paty dovesse essere intimidito» per aver mostrato delle caricature di Maometto ai suoi studenti.
Ha poi disposto una serie di perquisizioni e “visite” domiciliari a varie persone sospettate di far parte del movimento jihadista, e individuato tre associazioni da sciogliere, Cheikh Yassine, Collectif contre l’islamophobie (CCIF) e BarakaCity.
Una risposta che può sembrare dura, ma che ha sollevato diverse critiche, come rilevato dal Monde: «Il ministero dell’Interno ha cercato soprattutto di generare “l’effetto annuncio”, mettendo insieme misure amministrative di ogni sorta. Il rischio però è ottenere un cocktail con il retrogusto di impreparazione: la dissoluzione di associazioni si fonda su basi giuridiche incerte, le espulsioni di cittadini stranieri erano in realtà già state annunciate, e le perquisizioni, che non avevano alcun legame con l’inchiesta in corso, non hanno prodotto che un solo fermo di polizia». E però la strategia è rivendicata da Darmanin, che intende «destabilizzare, tormentare questo mondo, devitalizzare un ecosistema che sta crescendo e che è nocivo, agendo massivamente e brutalmente».
Il 28 ottobre, il Consiglio dei ministri ha effettivamente decretato la dissoluzione dell’associazione Barakacity sulla base dei commi 6 e 7 dell’articolo l212 del code de la sécurité intérieure. Il comma 6 prevede la possibilità di sciogliere associazioni che «provocano la discriminazione, l’odio, la violenza verso una persona o un gruppo di persone in ragione della loro origine, razza, appartenenza o non appartenenza a un’etnia, una nazione, una razza o una religione, o che propalano delle idee o teorie che tendono a giustificare o incoraggiare questa discriminazione, questo odio o questa violenza», mentre il comma 7 prevede che può essere richiesto lo scioglimento delle associazioni che «agiscono, sul territorio francese o a partire da questo territorio, per provocare atti di terrorismo in Francia o all’estero». Tuttavia queste circostanze vanno poi provate di fronte al giudice amministrativo, cosa non affatto scontata.
Il problema di questa strategia, spiega a Linkiesta Driss Aït Youssef, ricercatore di diritto pubblico, esperto di sicurezza e presidente della fondazione Leonardo Da Vinci, è che «dal punto di vista securitario è stato fatto tutto quello che si poteva: gli effettivi a disposizione dell’antiterrorismo sono aumentati così come i fondi, sono stati dati ulteriori poteri ai prefetti, è stata creata una procura che si occupa soltanto di antiterrorismo, una parte dello Stato d’emergenza in vigore dal 2015 al 2017 è stato integrato nel diritto comune. Il punto adesso non è aumentare la nostra capacità repressiva, ma combattere il fenomeno prima che si produca. E questo si può fare soltanto con strumenti culturali, sociali ed economici».
E intervenire in modo repressivo sui luoghi di culto non è per forza una buona idea: se il punto è cercare di integrare il più possibile la minoranza musulmana, esattamente ciò che cercano di impedire gli islamisti, che prosperano sull’idea dell’islam inconciliabile con la democrazia, allora chiudere le moschee non è forse il miglior modo di affrontare il problema: «Si tratta di una punizione collettiva che si abbatte indiscriminatamente su tutta una comunità, spesso costretta poi a trovare luoghi alternativi e meno sicuri per esercitare il proprio diritto alla preghiera. Se l’Imam fa una predica che incita all’odio si può intervenire direttamente contro di lui, è più giusto ed equilibrato», spiega Aït Youssef.
I tre ultimi attentati commessi in Francia, quello davanti alla sede di Charlie Hebdo, l’assassinio di Samuel Paty e l’attacco di Nizza, confermano che l’apparato repressivo non è in grado di prevenire ogni atto jihadista: nessuno dei tre terroristi era conosciuto dai servizi segreti. Circostanza che non necessariamente è indice di fallimento, perché vuol dire che invece le persone conosciute non riescono ad arrivare a mettere in pratica i loro propositi omicidi, come dimostra l’uomo fermato a Lione lo stesso giorno dell’attentato di Nizza, ma allo stesso tempo preoccupa, perché è ancora più difficile da prevedere e moltiplica i soggetti potenzialmente pericolosi.
Analizzando il profilo dell’attentatore di Nizza, si capisce che il problema non è soltanto la presenza di una comunità musulmana che in alcune frange radicali rifiuta l’integrazione ai valori della République. Brahim Aoussaoui non aveva alcun legame con la Francia: arrivato in Europa poche settimane fa passando da Lampedusa, non era il prodotto del disagio sociale delle periferie delle grandi metropoli.
Il suo atto, come quello del cittadino pachistano che ha ferito in modo grave due persone fuori all’ex redazione di Charlie Hebdo lo scorso settembre, non può essere paragonato agli attacchi di Al Qaeda o dello Stato islamico, che rispondono a delle logiche di organizzazione collettiva, hanno degli obiettivi politici e ragionano secondo lo schema della guerra santa. Come ha spiegato Amélie Blom, ricercatrice a Sciences Po, a France Info, questo tipo di azioni rivelano «una volontà personale di farsi giustizia da solo in nome di convinzioni morali o ideologiche»
Ecco perché il problema francese è di difficile soluzione, probabilmente impossibile da trovare. Il Paese deve affrontare un clima ostile cavalcato sia da agenti esterni che interni, che con motivazioni diverse e non necessariamente coerenti tentano di destabilizzare il Paese.
Le dichiarazioni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha attaccato duramente Emmanuel Macron, che aveva difeso la libertà di blasfemia, accusandolo di avere «problemi mentali» e di «non comprendere la libertà di fede», seguite dal boicottaggio delle merci francesi in alcuni paesi musulmani come Kuwait e Qatar e da proteste contro Macron e Charlie Hebdo, mostrano come una parte del mondo musulmano sia ostile alla Francia e alla sua concezione di laicità.
Un fenomeno non da poco considerato il legame di molti francesi di seconda e terza generazione con i Paesi di origine, e che alimenta le incomprensioni ricorrenti tra la comunità musulmana e la République. È ancora presto per dire che Aoussaoui abbia agito in virtù di questo clima, ma la coincidenza (e l’arresto contemporaneo di un altro potenziale terrorista lo dimostra) va senz’altro registrata: se l’obiettivo è «vendicare il profeta» per mostrare a se stessi e alla propria famiglia di origine di essere buoni musulmani, è chiaro che i ragionamenti sull’esclusione sociale di alcune periferie possono aiutare fino a un certo punto.
Le proteste internazionali, probabile benzina di questi atti, hanno il loro corrispettivo anche in Francia, e creano un terreno favorevole ad attentati come l’assassinio del professore Samuel Paty. Poco dopo aver tenuto il suo corso sulla libertà di espressione, Paty viene preso di mira dal padre di una delle sue allieve, che pubblica un post su Facebook in cui racconta l’accaduto e chiede aiuto alla comunità musulmana; dopo poche ore, il padre viene contattato da Abdelhakim Sefrioui, imam conosciuto dai servizi e schedato per “radicalizzazione di carattere terroristico”, che si offre di accompagnarlo dalla direttrice della scuola per chiedere di licenziare Samuel Paty.
I due pubblicano un video ciascuno sui social media per denunciare l’accaduto, video che diventano virali e sono anche ripresi dall’account Facebook della Moschea di Pantin, che poi è stata chiusa proprio per questo. Vista la risonanza dell’accaduto, il Monde definisce la dinamica innescata dai video virali sui social «Un mostro che supera largamente e in breve tempo i confini di Conflans», e arriva al futuro attentatore, Abdouallakh Anzorov, che nei giorni immediatamente precedenti all’attentato parla con il padre della studentessa di Paty su WhatsApp e che, secondo i primi elementi raccolti dalla polizia francese, era alla ricerca di un bersaglio da settimane.
L’influenza esterna che si accoppia all’influenza interna fa sì che il problema perduri e coinvolga generazioni differenti, da Mohamed Merah, autore degli attentati del 2012, nato nel 1988, ai due fratelli Kouachi, autori della strage di Charlie Hebdo, nati rispettivamente nel 1980 e nel 1982, al commando del 13 novembre 2015, composto da membri nati tra gli anni ’80 e ’90, fino ad arrivare all’assassino di Samuel Paty, nato nel 2002.
È qui che l’annunciata legge sul separatismo, che dovrebbe essere presentata dal governo francese a inizio dicembre, cercherà di intervenire: colpire al cuore il movimento centrifugo degli islamisti radicali, che non intendono accettare le regole della République. La sfida al separatismo, in qualche modo, contiene in sé la lotta al terrorismo, ma è più grande e difficile, perché appunto non può essere vinta soltanto dagli apparati di sicurezza.
E non può non passare anche per la comprensione dell’ambiente in cui attecchisce l’islamismo. Per Valentine Zuber, docente di religioni e relazioni internazionali all’École Pratique des Hautes Études, la storia ha un ruolo molto importante nella percezione reciproca tra i francesi di origine magrebina e di religione musulmana e gli altri: «Il problema culturale è evidente, ha delle radici profonde, e credo si nutra anche di un “passivo storico”, che non necessariamente porta ad atti terroristici, ma contribuisce a una certa incomprensione tra la comunità musulmana e il resto del Paese. La Francia è stata un impero coloniale, il trattamento riservato agli abitanti delle colonie, in particolare agli algerini, che non avevano cittadinanza piena, è il punto di partenza del risentimento. Oggi c’è quindi una domanda di più grande riconoscenza e visibilità, c’è anche un’affermazione identitaria che passa dalla religione a cui in occidente non siamo abituati, perché le nostre identità nel Novecento si definivano dal punto di vista politico».
Questa consapevolezza è utile perché l’obiettivo politico del terrorismo islamico è provocare una reazione altrettanto violenta dell’estrema destra, alimentando in questo modo il clima da guerra civile. E invece parte della soluzione pacifica del problema è rappresentata proprio dall’alleanza con la comunità musulmana, che deve essere aiutata a isolare le frange più estreme.
Quello che è accaduto ad Avignone, a poche ore dai fatti di Nizza, non è un bel segnale: un uomo di 33 anni è stato abbattuto dalla polizia mentre agitava una pistola minacciando i passanti, in particolare un commerciante magrebino. L’uomo portava una giacca blu con lo stemma di Génération identitaire, un piccolo gruppo di estrema destra noto per le sue azioni dimostrative contro gli immigrati. Secondo i primi elementi dell’indagine si tratterebbe di una persona con problemi mentali, ma non si può ancora escludere che il suo gesto sia legato al clima di queste settimane.
La nuova legge sul separatismo sarà molto probabilmente influenzata dai nuovi attentati terroristici, vista la volontà di Emmanuel Macron di mostrare che «la paura deve cambiare campo». Sarà interessante capire se il presidente riuscirà a domare la richiesta dell’opinione pubblica, che chiede più repressione e azioni concrete, e affrontare il problema con decisioni di lungo termine. Anche perché, prima di lui, anche gli altri presidenti hanno cercato di risolvere la questione, con scarso successo vista l’ondata di violenza degli ultimi vent’anni.