A un certo punto l’illuminazione: è come guardare il processo Cusani.
Silvia Toffanin ha zigomi molto più ossuti di Antonio Di Pietro, e Gabriel Garko è assai più di bell’aspetto dei segretari di partito novecenteschi, ma i vari «il sistema funziona in questo modo» sono identici.
Le più frivole di noi aspettavano da otto giorni. Da quando, due venerdì fa, avevamo assistito al dramma d’un uomo.
Due venerdì fa Gabriel Garko era comparso al Grande Fratello, dopo giorni di speculazioni abbastanza ubriache.
Due dei concorrenti sono infatti ex attori delle ex fiction di Zagarolo, quelle scritte dal più grande sceneggiatore italiano degli ultimi decenni, Teodosio Losito, già concorrente di Sanremo e poi scrittore residente a Zagarolo (Losito si è ucciso l’anno scorso).
I concorrenti avevano iniziato a parlare della casa di produzione con riferimenti oscuri, toni da Rosemary’s Baby, e i social dietro a vedere segni nei fondi di caffè, nelle viscere degli animali, e pure nel fatto che gli attori si fossero calati gli anni, evidente segno d’appartenenza a una setta (una setta chiamata vanità).
Insomma due venerdì fa Garko va al Grande Fratello, legge in lacrime una lettera a una delle concorrenti (già nota alle cronache come sua fidanzata), allude a un «segreto di Pulcinella», a domanda del conduttore – Alfonso Signorini, direttore di Chi e uomo di potere in assenza di poteri (più) forti – risponde che quella non è la sede giusta per parlare delle sue turpitudini morali.
Signorini abbozza. Perché è un uomo discreto? Figuriamoci. Perché, quando un uomo con una direzione incontra una donna che nello stato di famiglia ha il padrone della baracca, l’uomo con una direzione conta come il due di coppe quando briscola è a danari.
Signorini annuncia, simulando allegria in modo assai poco convincente, che le rivelazioni di Garko verranno fatte una settimana dopo a Verissimo, il programma di Silvia Toffanin, moglie di Piersilvio Berlusconi e titolare della briscola.
Il pubblico della tv generalista non assisteva a una scena tanto drammatica dalla morte di Tonio Fortebracci (come sarebbe, «chi è»: il personaggio di Garko in L’onore e il rispetto, cos’avete fatto in questi anni, siete andati a letto presto?).
In questi anni ho discusso con gente di cinema, più d’ogni altra cosa, dell’identità sessuale degli attori. A me pareva – continua a parermi – incredibile che nel ventunesimo secolo Tizio avesse una moglie di copertura, o Caio dei figli di copertura. Capisco non voler raccontare i fatti tuoi, che è quel che fa la differenza tra essere Lucio Dalla e essere Achille Lauro. Ma chi te lo fa fare d’inventarti una vita parallela?
Sei pazza, mi ha sempre detto la gente di cinema. Dimmi uno che ha detto che era gay e ha continuato a lavorare, mi hanno sempre sfidato senza che mi venisse in mente un nome.
Ma fare l’attore, derive identitarie americane (quelle per cui il personaggio della tal origine geografica o della tal identità sessuale può interpretarlo solo uno che corrisponda allo stesso profilo) a parte, non è esattamente fare altro da te?
Per credere che Romeo ami Giulietta dobbiamo non sapere che all’attore che fa Romeo piacciono invece i maschi? E se gli piacessero invece le femmine ma gli facesse comunque schifo quella che fa Giulietta?
Per dirla col dono della sintesi di Garko alla Toffanin: «Per quale motivo un attore è etero e magari vince un Oscar perché interpreta il ruolo di un gay, ma un gay non può interpretare l’etero?». Già, perché?
Ci struggiamo meno ad ascoltare Futura o Ed ero contentissimo solo perché sappiamo che a Dalla e a Ferro piacevano gli uomini e quindi, scrivendole, non sono – santo cielo – stati sé stessi sestessamente?
Se una domenica pomeriggio compaiono in tv Il letto racconta o Torna a settembre, non ci incantiamo a guardarli perché – scandalo, trauma – la vita ci ha svelato che Rock Hudson preferiva i maschi a Doris Day o alla Lollobrigida?
Ci sembra che Kevin Spacey non fosse la cosa migliore di House of Cards (meglio: l’unica cosa per cui valesse la pena guardarlo) solo perché il MeToo ci ha costrette ad apprendere che no, non aveva davvero una qualche attrazione sessuale per Robin Wright?
O, per caso, siamo abbastanza adulti e abbastanza sani di mente da sapere che quella che c’è sullo schermo è comunque una finzione, quali che siano le tue inclinazioni sessuali?
Per quante volte Garko ripeta alla Toffanin che è il sistema che è fatto così, per quante volte dica che gli è stato insegnato «che per fare questo lavoro non si poteva essere in quel modo», per quanto il suo lessico («in quel modo», neanche mia nonna molisana con l’altare di padre Pio di fianco al letto) sappia di dramma, alla fine sembra il meno Francesca Bertini in quello studio televisivo.
Molto più Eleonora Duse di lui la Toffanin, che gli dice che non poteva gridare i suoi sentimenti (cosa che tutti noi facciamo abitualmente), che gli dice «hai totalmente ucciso te stesso» (forse ha lo stesso autore testi della lettera di Garko al Grande Fratello, quella in cui diceva di aver ucciso il bambino dentro di lui; le offerte Adelphi hanno fatto più danni della grandine, gli autori televisivi sono tutti corsi a comprare James Hilllman).
Lui la prende piuttosto bassa, ricordandoci che dover dire tutta la verità è un dovere da tribunali, non da rotocalchi, che non raccontare tutti i cazzi propri a tutti era una cosa che prima dei reality andava sotto il nome di “buone maniere”. «Ho sempre cercato di dire le mie verità secondo gli spazi in cui potevo». Si vede che è un uomo del Novecento, quel secolo in cui ancora non erano passati di moda i lobi frontali.
«Non ho barato né bluffato mai, e questa sera ho messo a nudo la mia anima»: fossi stata un autore di Verissimo, per l’entrata di Garko avrei scelto Uno su mille. Andava bene, Gianni Morandi, anche quando la Toffanin gli rinfacciava interviste precedenti. Ci sono un paio di versi anche per quelle, in Uno su mille: «Io di voce ce ne avrei, ma non per gridare aiuto: nemmeno tu mi hai mai sentito, mi son tenuto il mio segreto, tu sorda e io ero muto».
E invece l’hanno fatto entrare sui Nirvana, Come as you are, che per gli autori di Verissimo dev’essere un inno del sestessismo. E avranno pure ragione. Ma quello che l’aveva scritta poi s’è ammazzato, e quindi il lascito mi pare sia che ci si deve andar piano, col dire tutta la verità.