Youness Warhou, 26 anni, marocchino, in attesa di cittadinanza, vive a Reggio nell’Emilia, software engineer in una multinazionale, fa parte del direttivo di NILI, il Network Italiano dei Leader per l’inclusione, e crede che la battaglia più importante sia quella per il diritto alla cittadinanza: «È il diritto alla partecipazione. Non averla inibisce l’eguaglianza sociale. Non è pensabile che le persone contribuiscano con il lavoro e con le tasse al benessere di un Paese senza riconoscergli in cambio il diritto alla cittadinanza e quindi al voto».
Quando è arrivato in Italia?
«Avevo già 15 anni. Sono arrivato al seguito dei miei genitori che erano già qui per lavoro, mio padre camionista e mia madre operatrice sociosanitaria. È stato un ricongiungimento familiare».
A 15 anni, nel pieno dell’adolescenza, chissà che shock…
«La cosa più difficile da gestire è l’aspetto identitario. Tu arrivi, sei convinto di essere un marocchino, hai già maturato delle idee… Diciamo che è stato stimolante. Per fortuna l’adolescenza è un’età critica ma che ti costringe a evolverti più facilmente e più velocemente».
Uno dei problemi più grandi sarà stato quello della lingua.
«Non parlavo italiano, non spiaccicavo nemmeno una parola. Sapevo solo dire “ciao” e “grazie”. In Italia poi non esiste un sistema di introduzione alla scuola per chi non parla la lingua. Per la mia età dovevo andare in seconda superiore, mi hanno messo in prima per imparare l’italiano. C’è anche chi perde due o tre anni… Chi arriva alla mia età fa ancora più fatica. Non siamo nemmeno seconde generazioni».
Adesso che ha 26 anni, cosa le è rimasto del Marocco?
«Tutto. Sono italomarocchino anche se sto ancora aspettando la cittadinanza. Ho fatto la domanda un anno fa ma in Italia ci vuole davvero tanto tempo. Riesco a vivere in armonia con le mie identità, mi fa essere multiculturale».
Dieci anni fa quando è arrivato, c’era già una brutta aria contro gli stranieri…
«Meno di oggi, c’era meno pressione sociale e i social, che sono il principale veicolo di haters e razzisti, non erano ancora così diffusi».
Continua a leggere su Nuove Radici