E vissero felici e connessiDieci proposte per un sano rapporto tra lavoro e tecnologia

Antonio Aloisi e Valerio De Stefano in “Il tuo capo è un algoritmo” (Laterza) propongono un decalogo di azioni per «salvare la trasformazione digitale da sé stessa»

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Che cosa sta accadendo alle professioni che non sono state spazzate via dalla tecnologia? Come ci si confronta con strumenti di sorveglianza dei lavoratori sempre più pervasivi? Quante possibilità ci sono che il modello della gig economy si affermi come nuovo paradigma produttivo? Cosa potranno fare le parti sociali per mettere in campo protezioni efficaci?

In “Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano” (Laterza), Antonio Aloisi (docente di diritto del lavoro all’Università IE di Madrid) e Valerio De Stefano (docente di diritto del lavoro all’Università di Lovanio) indagano il rapporto tra lavoro e tecnologia, offrendo le coordinate per orientarsi nei nuovi scenari in rapido cambiamento.

Pubblichiamo un estratto dal testo con le dieci proposte finali per affrontare il futuro del lavoro.

E vissero felici e connessi
Tutti parlano del futuro del lavoro, ed è giusto così. L’abbondanza di profezie, tuttavia, rischia di imbarbarire il confronto, oltre a scoraggiare un interesse largo e condiviso, come sarebbe invece auspicabile. È così che ogni abbozzo di riflessione su modelli produttivi, politiche industriali, stato dei diritti e qualità dei lavori rischia di essere percepito come un esercizio di futurologia, appannaggio di un manipolo di privilegiati a cui – come recita l’adagio di Jerome K. Jerome – il lavoro piace a tal punto che potrebbero «stare seduti per ore ad osservarlo».

Viceversa, prendere di petto la trasformazione digitale serve a ribadire un messaggio essenziale: la tecnologia può essere governata e il progresso può andare di pari passo con il rispetto e l’accrescimento dei diritti di chi lavora. Qualche anno fa, assieme a Six Silberman, computer scientist assunto dal sindacato tedesco IGMetall per coordinare le campagne di sindacalizzazione dei lavoratori digitali, abbiamo abbozzato un “manifesto” per salvare la gig-economy (prima di tutto da sé stessa).

Sulla scia di altre iniziative internazionali, abbiamo messo insieme un elenco di proposte migliorative. Pensiamo sia utile riproporne e aggiornarne alcuni contenuti. Lo facciamo nella consapevolezza che la sfida per la gestione della rivoluzione digitale vada molto al di là delle piattaforme, per una serie di ragioni. In primo luogo, l’economia delle piattaforme è la cartina al tornasole di sconvolgimenti più profondi che attraversano e riconfigurano i mercati del lavoro. Di conseguenza, le proposte non valgono soltanto per chi lavora per le app, ma anche per i tanti lavoratori con contratti frazionati, orari imprevedibili e compensi instabili. Le raccomandazioni non rappresentano ovviamente un pacchetto completo. Si rivolgono non solo ai “padroni degli algoritmi”, ma anche al legislatore, alle centrali sindacali e, non da ultimo, ai lavoratori. Pensare che la rivoluzione digitale imponga di abdicare a politiche di regolamentazione e redistribuzione è sbagliato e intellettualmente ignavo. Si può fare molto, sin da subito, rinunciando alla velleità di fermare il vento con le mani. Ecco, quindi, una breve lista di proposte pragmatiche.

Nuovi contratti di lavoro subordinato. Le piattaforme che hanno conquistato fette ragguardevoli del mercato dovrebbero offrire contratti di lavoro subordinato per quel contingente di lavoratori che garantisce il grosso delle commesse. Dopo una fase iniziale, le statistiche e i dati raccolti possono contribuire a definire un numero di assunzioni stabili, anche a tempo parziale – tenendo conto delle fasce orarie e dei periodi in cui certi servizi sono maggiormente richiesti. Le società possono legittimamente continuare a servirsi di altri collaboratori per far fronte ai picchi e alle necessità estemporanee. Dotarsi di una forza lavoro stabile lancerebbe un messaggio chiaro sullo stato di salute di molte imprese dell’economia on demand, utile anche a dismettere le strategie adottate finora, che hanno alienato la simpatia di molti consumatori e investitori.

Tutele e diritti oltre il lavoro subordinato. Ben al di là delle piattaforme, i legislatori dovrebbero porsi il problema di allargare il campo di applicazione del diritto del lavoro. Se fanno fatica a coprire a dovere le nuove forme di lavoro, le nozioni classiche di subordinazione e autonomia si possono riformare e, se necessario, superare. Andare verso l’universalità delle tutele, prescindendo dalla distinzione tra lavoratori autonomi e subordinati, è una strada da percorrere. Sul piano pratico, servirebbe anche a offrire maggiori certezze e depotenziare il contenzioso sul corretto inquadramento dei lavoratori, che è costoso, imprevedibile e provvisorio per tutte le parti coinvolte. Per alcuni diritti, primi fra tutti tutele sindacali, privacy e contrasto alla discriminazione, il sentiero è stato già battuto grazie al diritto internazionale.

Un codice di condotta per gli operatori digitali. Per disciplinare i livelli minimi di pagamento da parte delle piattaforme, accrescere la condivisione dei criteri applicati dagli algoritmi e garantire la liceità dei contenuti scambiati online, c’è bisogno di un decalogo alla portata di tutti, sul modello del codice adottato dalle piattaforme di crowdwork tedesche. Si tratta di uno strumento agile che dovrebbe raccogliere le buone esperienze di lavori non-standard e offrire un catalogo di comportamenti da condannare (per esempio escludendo dai bandi pubblici le imprese indisciplinate). Il design ha un ruolo decisivo quando si tratta di plasmare attese, interazioni e risultati nei rapporti tra piattaforma, committente e lavoratore: è il momento di definire un modello di responsabilità sociale che promuova la trasparenza dei processi interni.

Regole chiare sui pagamenti per il lavoro online. Vanno fissate regole trasparenti sui pagamenti e sulle conseguenze del rifiuto del lavoro finito da parte dei committenti sulle piattaforme. Purtroppo, le note legali di molti siti consentono ai clienti insoddisfatti di trattenere un prodotto senza compensare il lavoratore, a cui non è dovuta alcuna spiegazione. Va concessa la possibilità di contestare un rigetto, se immotivato o fraudolento, offrendo al lavoratore un canale per informarsi e giustificarsi (senza rischiare la disattivazione dell’account, come succede oggi). Si può immaginare un sistema indipendente di risoluzione delle controversie sulla qualità del servizio reso, con una commissione di arbitri in rappresentanza di tutte le parti che garantisca l’imparzialità dei giudizi. Si deve anche poter ricorrere al giudice, nel Paese dove il lavoratore presta abitualmente la sua attività (accade già per il lavoro offline quando si lavora in un Paese diverso dal datore di lavoro).

Quali obblighi per chi vuole esternalizzare. Nei casi in cui si dovesse dimostrare che il ricorso al lavoro occasionale maschera un deliberato processo di esternalizzazione intra moenia (quando cioè una posizione interna è dapprima soppressa e poi affidata a un contrattista che si ritrova a svolgere le stesse mansioni con trattamenti inferiori), ci si dovrebbe riferire al contratto collettivo delle figure professionali “affini” come parametro per misurare la correttezza delle condizioni applicate in fatto di orario, turni, compensi, tutele, assicurazioni, strumenti di lavoro. Non vale solo per le app. Va superata l’idea, corroborata da alcune riforme recenti, che le esternalizzazioni possano essere esclusivamente motivate dalla volontà di tagliare i costi del lavoro. La tradizione giuridica è ricca dimisure che contrastano questi fenomeni: sono state archiviate troppo precipitosamente.

Lavoro flessibile, diritti certi. Vanno garantiti turni personalizzati o ancora progetti complessi con tempi non stretti a quanti si rivolgono alle piattaforme digitali e, più in generale, al lavoro autonomo alla ricerca di flessibilità organizzativa. Fin quando sarà mantenuta la distinzione tra autonomi e subordinati, se si opta per inquadrare il lavoratore come genuinamente autonomo, va limitata al massimo l’intrusione della piattaforma, dei clienti e degli altri committenti, specie se sconfina in sorveglianza diretta o ordini di dettaglio (prerogative di comando tipiche di un datore di lavoro “tradizionale”). Se invece i rapporti sono di natura subordinata, ci si può ispirare alla disciplina del lavoro agile – uno strumento sperimentato su larga scala per mitigare il rischio di contagio nella scorsa primavera – per favorire le prestazioni da remoto, garantendo ai lavoratori elasticità organizzativa e un sano equilibrio tra vita privata e vita professionale.

Portabilità del «rating» personale. L’impronta digitale delle nostre vite ha una rilevanza sempre maggiore. Vale ancora di più per quei lavoratori legati a doppio filo alla propria reputazione conquistata online. Il rating maturato su una piattaforma, così come la storia lavorativa che ha condotto a quel punteggio (clienti serviti, prestazioni svolte, affidabilità dimostrata), rappresentano un portfolio personale di credibilità e professionalità: deve essere “portabile”, come ha invocato il Garante Privacy. Non solo, si devono garantire l’adattabilità e l’interoperabilità su altre piattaforme delle carriere digitali. A tal proposito, è doveroso rimuovere le clausole di esclusiva che vincolano i lavoratori, a meno che non si decida di considerarle veri e propri patti di non concorrenza, dunque monetizzabili. La mobilità che ne risulterebbe è un vantaggio per tutti. Esistono prove a supporto del fatto che la libertà dei dipendenti di competere abbia effetti benefici sull’innovazione e sullo sviluppo economico.

Orario minimo garantito. Nell’era della “freelancizzazione di massa” e del cottimo online, capire come invertire la rotta è essenziale. Si può fare in modo che il lavoro occasionale sia meno imprevedibile e saltuario, dentro e fuori le piattaforme. Basterebbe prendere spunto da norme come quelle che limitano gli zero-hour contracts olandesi: con questo schema, dopo alcuni mesi, al lavoratore va garantito un minimo orario sulla base della media delle ore lavorate nel trimestre precedente, al fine di scongiurare un abuso di prestazioni “alla spina” nel settore dei servizi. In virtù di una nuova direttiva europea, gli Stati membri sono chiamati ad adottare soluzioni di questo tipo a partire dal 202230. In assenza di queste norme, il legislatore europeo prevede che il lavoro “a chiamata” sia limitato e ricondotto ad un uso fisiologico, evitando che si trasformi in uno strumento low-cost.

Sussidi universali e meno condizionalità nel welfare. La condizionalità forzata dei sussidi spinge i beneficiari ad accettare lavori di scarsa qualità a vantaggio di imprese inefficienti e a danno della produttività e del benessere di tutti. Anche per questo motivo, ripensare gli assegni per chi si trova temporaneamente senza lavoro non è più rimandabile. Nessun dubbio: la goffa versione nostrana del reddito di cittadinanza va rivista. Ma senza pregiudizi ideologici. Abbiamo l’occasione di ripensare i modelli esistenti e mettere in discussione idee vecchie come l’eccessiva condizionalità dei sussidi. Meno moralismi, più contrasto alla in-work poverty e libertà dal bisogno sono obiettivi essenziali. Da abbinare a una riflessione corale e approfondita sui modelli di salario minimo a vantaggio dei lavoratori che non sono coperti dai contratti collettivi. Su questo capitolo anche le istituzioni europee si sono messe al lavoro di recente.

Un sindacato per i diritti digitali. Nonostante la frammentazione e l’isolamento, i lavoratori delle piattaforme e gli altri autonomi “dipendenti” si stanno organizzando in sindacato e ne hanno tutto il diritto, a norma del diritto internazionale. Sul piano giuridico, bisogna superare le interpretazioni antiquate del diritto della concorrenza. Parallelamente, sul fronte pratico, le federazioni settoriali e territoriali dei sindacati “storici” devono sostenere le iniziative di organizzazione e rivendicazione. Intercettare lo spontaneismo e ricondurlo nei binari classici del conflitto e del negoziato è, in fin dei conti, la missione fondativa delle forze collettive. A loro volta, i movimenti di base dovrebbero superare le resistenze al dialogo con i sindacati, anche per approfittare del bagaglio di esperienze e di risorse che questi ultimi possono mettere a disposizione. Campagne come il Fight-for-15 statunitense hanno dimostrato quanto paghi la cooperazione tra sindacato tradizionale e collettivi indipendenti.

Contrattare la trasformazione digitale. Lavoratori, sindacati e imprese devono negoziare l’uso delle tecnologie sui posti di lavoro, l’utilizzo dei big data e dell’intelligenza artificiale e l’impiego di algoritmi-manager. Le decisioni che hanno un impatto significativo sulla vita delle persone e sul loro lavoro non devono essere prese dalle macchine, con la scusa della loro presunta oggettività. I contratti collettivi possono garantire un approccio human-in-command sul lavoro, assicurare la trasparenza degli algoritmi e l’utilizzo virtuoso di dati e intelligenza artificiale. I governi devono darsi da fare per promuovere il dialogo sociale e la contrattazione collettiva in materia, anche condizionando gli incentivi pubblici alla riqualificazione e all’ammodernamento delle tecnologie aziendali alla stipulazione e al rispetto di apposite intese con le parti sociali. Parallelamente, bisogna investire in formazione e aggiornamento per garantire il protagonismo su questi temi, a tutti i livelli.

Insomma, il futuro delle tecnologie e il futuro del lavoro non sono scritti negli astri. Non si svilupperanno sulla base di leggi naturali imperscrutabili e immodificabili. Digitale, lavoro, automazione e diritti sono processi troppo umani: dipendono dalle regole che la collettività decide di darsi. Dal momento che il loro avvenire riguarda tutti, non può essere rimesso alle sole decisioni dei programmatori informatici della Silicon Valley, dei CEO degli unicorni tech, o di chi crea e mette all’opera strumenti di sorveglianza digitale di massa. È inutile girarci attorno: il dibattito sull’innovazione è intimamente legato al tema della creazione di lavoro di qualità. Silenziato per troppo tempo, questo aspetto si è fatto largo fino a imporsi con veemenza, condizionando la lettura di questioni in apparenza sconnesse e inchiodandoci alle nostre responsabilità. Se «il lavoro non è una merce», come sancisce l’Organizzazione Internazionale del Lavoro sin dalla sua fondazione, si può provare ad aggiornare questo proclama. Il lavoro non è neanche una tecnologia.

Da Il tuo capo è un algoritmo – Contro il lavoro disumano di Antonio Aloisi, Valerio De Stefano (Editori Laterza),  248 pp, 18 euro

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