Nagorno-Karabakh è un nome che dirà pochissimo alla maggioranza degli italiani: è il toponimo di una piccola e scarsamente abitata regione del Caucaso meridionale, senza sbocco sul mare e isolata sul piano internazionale. Ma al Nagorno-Karabakh è legato un conflitto trentennale su una parte rilevante del territorio del nostro primo fornitore di petrolio: l’Azerbaijan.
Da una settimana quel conflitto, mai terminato, è riesploso in maniera inattesa. Per la politica estera italiana, fortemente legata alla questione dell’approvvigionamento energetico, comprendere gli scenari possibili a breve e medio termine è un’esigenza tutt’altro che trascurabile.
Proviamo innanzitutto a ricostruire il contesto. In un’epoca segnata da guerre civili, il conflitto nel Nagorno-Karabakh rappresenta uno dei pochi casi oggi esistenti di conflitto armato internazionale, in cui si affrontano cioè le forze armate di due Stati: l’Armenia e l’Azerbaijan.
Rileggendone la storia, le cause strutturali del conflitto sembrano ricostruibili in maniera tutto sommato lineare e ne rivelano la natura etnico-politica, legata alle caratteristiche demografiche della regione e al riacuirsi di tensioni etniche lungo i confini delle vecchie repubbliche sovietiche al momento della dissoluzione dell’URSS.
Il Nagorno-Karabakh è una regione prossima al confine tra Armenia e Azerbaijan, che fa parte dell’Azerbaijan ma ha una popolazione a maggioranza fortemente (oggi quasi esclusivamente) armena.
All’epoca del collasso dell’Unione Sovietica, le autorità del Nagorno-Karabakh, che era già un “oblast” (cioè una regione autonoma della Repubblica Sovietica dell’Azerbaijan), votarono dapprima per l’annessione all’Armenia, poi proclamarono una repubblica indipendente nel gennaio del 1992.
I combattimenti su larga scala scoppiarono solo nel tardo inverno di quell’anno e portarono, nella primavera del 1993, all’occupazione da parte delle truppe armene dell’intera regione autonoma, ma anche di sette distretti circostanti in territorio azero al di fuori dell’oblast originario.
Nel maggio del 1994, con la mediazione della Russia, è stato firmato un cessate il fuoco che ha cristallizzato lo status quo, con un governo de facto in Nagorno-Karabakh (rinominato “Repubblica di Artsakh” nel 2017) indipendente da Baku e largamente controllato dall’Armenia, che provvede a finanziare, equipaggiare e addestrare l’esercito del Nagorno-Karabakh, controllandone anche la pianificazione militare.
In assenza di un accordo di pace e di una soluzione consensuale del conflitto, per la comunità internazionale tanto il Nagorno-Karabakh quanto gli altri distretti restano parte del territorio dell’Azerbaijan sotto occupazione armena.
Ad oggi nessuno Stato al mondo, nemmeno l’Armenia, ha riconosciuto la Repubblica di Artsakh. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha persino stabilito nel 2015 che, dato il contributo decisivo del sostegno armeno alla sopravvivenza del Nagorno-Karabakh come entità autonoma, l’Armenia deve rispondere delle eventuali violazioni della Convenzione Europea commesse sul territorio azero che occupa (caso Cihgarov). E il 30 settembre la stessa Corte ha adottato un provvedimento provvisorio richiamando le parti (entrambe membri della Convenzione Europea) a cessare ogni azione militare che possa violare i diritti della popolazione civile.
Anche se in due decenni e mezzo le schermaglie sulla linea del fronte non sono mancate, conoscendo un picco nel 2016, dal cessate il fuoco del 1994 non si era mai vista una ripresa delle ostilità di questa portata. Il numero di vittime e i mezzi in campo (artiglieria pesante, mezzi corazzati, droni e reparti di fanteria) lasciano pensare che entrambi gli Stati non considerino lo scontro in atto come una semplice operazione tattica di mantenimento della pressione al fronte.
Nel 2018, la ripresa dei colloqui tra il Presidente armeno e l’omologo azero e il rinnovato impegno al cessate il fuoco aveva fatto sperare in un rilancio del processo di pace e aveva contribuito alla de-escalation. Anche per questo da una settimana gli analisti faticano a comprendere cosa abbia motivato l’improvvisa ripresa delle ostilità.
Al momento non è stato nemmeno possibile accertare quale delle due parti abbia avviato gli scontri, anche se quella di un attacco azero resta l’ipotesi più verosimile: l’obiettivo strategico dell’Armenia, che controlla un territorio ben più ampio di quello originariamente rivendicato dalle autorità del Nagorno-Karabakh, non può che essere il consolidamento dello status quo, rimesso invece in discussione dallo spostamento della linea del fronte avvenuto negli ultimi giorni.
Ma in un’analisi del conflitto, il dibattito su cosa abbia fatto da innesco (la ricerca dei cosiddetti trigger) è poco rilevante in questo momento: cercare di ricostruire la dinamica dell’incidente non solo è difficile a ostilità in corso, è anche un pessimo punto di partenza per un negoziato tra le parti, perché rischia di alimentare il risentimento reciproco.
Anche un’analisi approfondita delle cause strutturali (le root cause), indispensabile per dar vita a un processo di pace solido, potrebbe essere prematura. Per fermare l’escalation, è necessario invece comprendere quali cause prossime hanno modificato la percezione degli interessi in gioco di ciascuna parte (o almeno di una di esse) e quali fattori determinanti (i driver) guidano il loro comportamento bellico e possono quindi ragionevolmente influire sulla loro determinazione a trattare una tregua.
Con una precisazione: non si tratta di un modello di analisi valido per ogni conflitto. La storia prova che nella maggior parte dei casi il ricorso alla violenza armata è legato a fattori pre-razionali (ideologici, religiosi, etnici) che sfuggono a un tentativo di analisi secondo modelli basati sul decisore razionale.
In quei casi, ignorare le componenti non-razionali del conflitto rischia di frustrare ogni tentativo di pacificazione. Nella guerra in Nagorno-Karabakh invece, per la storia e la natura del conflitto, una ricostruzione delle cause prossime potrebbe contribuire agli sforzi della diplomazia per riportare l’Armenia e l’Azerbaijan al tavolo delle trattative.
Se il conflitto in Nagorno-Karabakh è rimasto per più di due decenni dormiente lo si deve soprattutto al suo carattere simmetrico. Per molto tempo dopo la conclusione del cessate il fuoco, le forze schierate ai due lati del fronte non hanno mostrato rilevanti disparità di capacità militare, equivalendosi in termini di personale, equipaggiamento e addestramento.
La simmetria è rapidamente venuta meno negli ultimi anni per due ragioni principali. In primo luogo, perché l’Azerbaijan dal 2015 ha fortemente aumentato le proprie spese militari, portando il budget delle proprie forze armate nel 2020 a 2,2 miliardi di dollari, ovvero il quadruplo del bilancio della difesa armena (con un incremento del 20% rispetto al 2019).
In secondo luogo, perché l’incremento della spesa militare è coinciso con l’aumento delle importazioni di materiale bellico dalla Turchia. È quest’ultimo fattore che più di ogni altro ha alterato il calcolo strategico della leadership azera e ha frantumato la simmetria non solo militare ma anche diplomatica tra le due parti del conflitto, finora garantita esternamente dalla Russia.
Benché la Turchia intrattenga con l’Azerbaijan un rapporto storico, che ha radici nell’appartenenza di entrambi i popoli all’etnia turca ed è eloquentemente espresso nel motto turco “una nazione in due Stati”, è la Russia che, per evidenti ragioni storico-politiche legate al passato sovietico di entrambi i Paesi, ha sempre giocato il ruolo di regista tra Armenia e Azerbaijan.
Consapevole sia dell’equilibrio militare che del potenziale squilibrio diplomatico, la Russia ha perseguito una politica di “ambivalenza controllata”. Dopo il cessate il fuoco del 1994, Mosca ha promosso il riarmo simmetrico dei due Paesi, vendendo armamenti tanto a Baku quanto a Yerevan, ma allo stesso tempo ha stretto un rapporto privilegiato con l’Armenia, che passa per l’installazione di una base e di un contingente di 5.000 soldati russi sul suolo armeno e per la partecipazione dell’Armenia all’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), un’alleanza militare in funzione difensiva dalla quale l’Azerbaijan si è ritirato nel 1999.
Una politica quindi di cooperazione e deterrenza verso l’Azerbaijan, per rispondere allo storico timore dell’Armenia di finire schiacciata a Est e a Ovest dalle mire egemoniche turche. Timori che sembrano confermati, oltre che dall’aumento di armi vendute dalla Turchia all’Azerbaijan dal 2015, soprattutto droni, missili ed equipaggiamento per la guerra elettronica, dall’invio negli ultimi giorni in Azerbaijan di alcune centinaia di combattenti siriani al soldo di una compagnia militare privata turca, negato da Baku ma confermato dal presidente francese Macron sulla scorta di informazioni di intelligence.
L’inizio degli scontri è stato preceduto da una vasta esercitazione militare congiunta delle forze turche e azere e seguito dalla promessa del Presidente Erdogan di rimanere al fianco degli amici e fratelli dell’Azerbaijan nel conflitto.
Se si prende in considerazione tra le cause prossime dell’attuale crisi in Nagorno-Karabakh l’evoluzione della politica di potenza regionale turca, è possibile dare una lettura più ampia dei moventi che guidano le scelte strategiche di entrambe le parti.
Certo, ai fattori geopolitici vanno affiancati quelli di politica interna, in particolare la crisi di consenso del Presidente azero e la forte pressione delle frange nazionaliste dell’opinione pubblica verso un conflitto con l’Armenia. Ma sarebbe semplicistico pensare che l’obiettivo strategico dell’Azerbaijan sia la riconquista dei territori occupati: uno scenario che contempla la completa estromissione dell’Armenia dal Nagorno-Karabakh comporterebbe un conflitto regionale di ampia portata.
Più realisticamente, è probabile che il crescente coinvolgimento turco, anche se finora indiretto, abbia indotto la leadership azera a un cambio di strategia: provare a collocare il conflitto sul proprio territorio nel più ampio quadro della rivalità russo-turca, ottenendo rapide conquiste territoriali per poi trattare in una posizione di forza in una nuova cornice diplomatica, che includa la Turchia.
La rivalità tra Turchia e Russia, che investe già numerosi altri fronti, si è tradotta negli ultimi anni in una innovativa applicazione della dottrina della “competizione cooperativa” (o “cooperazione competitiva” se si preferisce).
Da quando nel 2015 l’aeronautica di Ankara ha abbattuto un aereo militare russo che aveva violato lo spazio aereo turco, i due Paesi sono passati rapidamente da una grave crisi diplomatica a una progressiva convergenza tattica utile a garantire vantaggi reciproci nei teatri dove combattono su fronti opposti.
In Siria, la Turchia arma, finanzia e controlla alcuni gruppi di ribelli nel nord-ovest contro il regime di Assad, salvato dall’intervento militare russo: Ankara non vorrebbe ritirarsi, ma vede in Mosca un garante della stabilità nella regione in funzione anti-curda, molto più affidabile degli Stati Uniti che hanno apertamente sostenuto le forze armate dei curdi in Siria.
In Libia, la Russia sostiene diplomaticamente e militarmente (tramite una compagnia militare privata) le autorità di Tobruk e l’esercito di Haftar nell’est del Paese, contro il Governo di Accordo Nazionale alleato, armato e aiutato (tramite l’invio di contingenti di combattenti siriani) dalla Turchia: Mosca mira a stabilizzare la situazione per espandere la propria presenza nel Mediterraneo e ha trovato in Ankara un interlocutore altrettanto propenso a una soluzione del conflitto che favorisca la divisione della Libia in sfere di influenza.
Se collocato nel contesto appena descritto però, il conflitto in Nagorno-Karabakh rischia di vedere complicata ogni prospettiva di risoluzione a breve termine.
Il Caucaso non è il Medio Oriente o il Nord Africa: qui la Russia pretende di conservare un ruolo preminente nella soluzione delle controversie regionali e difficilmente accetterà di trattare con la Turchia alla pari. Allo stesso tempo, le forze armate russe sono già dispiegate al massimo delle proprie capacità: oltre che in Siria e in Libia, la Russia è coinvolta militarmente in Ucraina dell’est e in Georgia, mantiene una forte presenza in Crimea per difenderne l’annessione illegale e ha bisogno di tenere pronto un numero sufficiente di contingenti nel caso divenga necessario un intervento in Bielorussia.
La Turchia dal canto suo, oltre che in Siria e in Libia, è impegnata in Iraq e a Cipro nord, oltre a portare avanti una politica apertamente offensiva nel Mediterraneo orientale con lo spiegamento della marina militare a difesa delle sue rivendicazioni marittime. Tanto la Russia quanto la Turchia quindi hanno un interesse a evitare un intervento diretto, che potrebbe trascinarle in un confronto regionale. In queste condizioni tuttavia, rischiano di non avere nemmeno abbastanza presa sui rispettivi alleati da obbligarli a fermare le ostilità.
Se il conflitto in corso non si attenuerà e la Russia e la Turchia non riusciranno a fermarlo a livello regionale, la palla passerà al gruppo di Minsk, un gruppo di Paesi OSCE co-presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti e creato nel 1994 per sostenere una soluzione pacifica e negoziata.
Del gruppo di Minsk fa parte anche l’Italia, che, oltre a importare una notevole quantità di petrolio dall’Azerbaijan, ne è anche il primo partner commerciale a livello globale. Certo, il Caucaso non è un teatro nel quale l’Italia è chiamata a giocare un ruolo di primo piano nella soluzione dei conflitti regionali: ma le relazioni commerciali restano uno degli strumenti che i mediatori potranno utilizzare per agevolare un negoziato.
Quando si tornerà al tavolo delle trattative, l’Italia potrebbe dare un contributo rilevante a riavviare il processo di pace.