Pubblicato originariamente da OC Media su Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa
Armenia e Azerbaijan non sono riusciti a raggiungere una soluzione di compromesso sul Nagorno-Karabakh. La vittoria dell’uno sull’altro è illusoria. L’unico modo per procedere è riflettere su cosa si è perso e cosa resta da perdere.
Esiste una utile tipologia di soluzioni di conflitto: vittoria-vittoria; vittoria-sconfitta; compromesso. Vittoria-vittoria è la soluzione in cui tutte le parti ottengono ciò che vogliono; vittoria-sconfitta è la soluzione in cui una parte ottiene ciò che vuole e l’altra no, e il compromesso è quando ciascuna parte fa alcune concessioni. Vi è anche al situazione sconfitta-sconfitta, che di solito è vista come il risultato di conflitti irrisolti.
Gli sforzi degli specialisti della risoluzione dei conflitti sono comprensibilmente focalizzati sul raggiungimento di risultati vantaggiosi per tutti e talvolta di compromesso. Questa tipologia, come tutte le tipologie, è semplicistica. Il suo aspetto più problematico è a mio avviso che la soluzione sconfitta-sconfitta non viene considerata adeguatamente; spesso l’utilizzo della parola “compromesso” è un modo per edulcorare l’elemento “sconfitta”. È sulla “sconfitta” che dobbiamo, in merito al conflitto del Karabakh, confrontarci.
Ormai è diventato ovvio che una soluzione vittoria-vittoria in questo conflitto non è possibile. Anche il processo di pace, incentrato sul compromesso, è fallito miseramente. E le parti sembrano ancora ritenere che l’opzione vittoria-sconfitta sia ancora una possibile via d’uscita. Ritengo sia un’illusione.
La parte armena può ritenere, 26 anni fa, di aver ottenuto (senza però il riconoscimento legale) una soluzione vittoria-sconfitta. Ma questo è precisamente il motivo per cui la guerra in corso dura tuttora. Nel caso, di sicuro altamente improbabile, in cui l’Azerbaijan riesca a ripristinare con mezzi militari completamente la sua integrità territoriale, è probabile che lo stesso scenario si ripeta a parti invertite tra cinque, dieci o 26 anni.
Quindi l’unica via d’uscita da questo conflitto è una soluzione sconfitta-sconfitta. È lì che stiamo andando, in un modo o nell’altro. Possiamo arrivarci bombardandoci a vicenda, uccidendo migliaia di persone, spezzando milioni di vite e facendo precipitare l’intera regione nel caos. O, forse, possiamo ancora sederci ad un tavolo e decidere quanto siamo disposti a perdere in modo da poter continuare con le nostre vite, in modo imperfetto, con ciò che ci resta.
Una cosa importante per fare i conti con la sconfitta è sbarazzarsi delle nostre illusioni. So che alcune persone di entrambe le parti hanno nostalgia del passato, dove armeni e azeri vivevano pacificamente insieme. Anch’io ho nostalgia. Come cittadina di Baku anch’io posso raccontare molte storie di quel tenore. Ma questo è il nostro passato. Quei giorni sono andati; sono stati resi possibili da un particolare contesto storico e la realtà ora è diversa. È un’illusione pensare che tutto questo possa essere ripristinato.
So che alcune persone in Azerbaijan credono in buona fede che una volta che il regime militare in Karabakh se ne sarà andato, che i soldati armeni lasceranno il suolo azero e che gli sfollati interni azeri torneranno alle loro case, si potrà vivere pacificamente con gli armeni del Karabakh, che sono, dopo tutto, nostri concittadini.
Ritengo che la maggior parte degli armeni del Karabakh sinceramente non possa accettare l’idea di vivere all’interno dei confini dell’Azerbaijan. L’attuale escalation violenta non li convincerà certo del contrario.
Penso che molti armeni favorevoli alla pace credano onestamente che la questione del Karabakh sia stata esasperata in Azerbaijan dalla propaganda di stato e che sia il governo azerbaijano a non accettare l’indipendenza del Karabakh, mentre il popolo l’accetterebbe. Anche questa è un’illusione.
Possiamo discutere a lungo sulle origini della nazione azera e se esistesse nel 1828, 1921 o 1989. Ma nel 2020, siamo una nazione. Una nazione martoriata da conflitti e divisioni interne di lingua, luoghi di origine, classi, ideologia, ecc. Ma siamo una nazione territoriale, multietnica, multiculturale. E il Karabakh, sia territorialmente che simbolicamente, è centrale per quella nazione. In effetti, è stato il conflitto del Karabakh a renderci una nazione.
Per me, non è una questione di orgoglio, ma di fatto. Considero la nazionalità come una forma di organizzazione sociale tipica della modernità. Come con qualsiasi altra forma di organizzazione sociale, la sua importanza cambierà e alla fine svanirà.
Personalmente, preferirei una forma diversa di organizzazione sociale, basata su reti transnazionali di individui uniti dai loro interessi e idee. Ma la realtà è che la nazione è ancora la forma dominante di organizzazione sociale, e né la nazionalità azera né quella armena stanno scomparendo solo perché alcuni di noi pensano che l’identità dell’altro sia costruita su miti che non sono veri. Quindi ciò che serve è una soluzione che consenta a entrambe le nostre nazioni di seguire strade separate.
La migliore analogia a cui riesco a pensare è quella del divorzio. Anche il divorzio è spesso doloroso e porta a perdite. Ma forse è giunto il momento di accettare che non è possibile avere tutto ciò che vogliamo, di accettare che dobbiamo rinunciare a qualcosa, anche a qualcosa di importante per noi, al fine di fermare questo corpo a corpo mortale e andare avanti con le nostre vite prima di perdere più di quanto avessimo mai immaginato. Prima che muoiano altre persone. Prima che vengano commessi altri crimini di guerra. Quindi ora, a due settimane dall’escalation di violenza e odio, non voglio sognare il passato. Voglio sognare un futuro che possiamo ancora avere.
È vero, gli oltre 30 anni di conflitto hanno reso piuttosto difficile persino immaginare un simile futuro. Ma ci sono alcune cose che posso ancora immaginare. Recarmi in Armenia senza aver bisogno di una guardia del corpo armata che mi segua ad ogni passo. Poter andare al luogo di nascita della mia bisnonna, Shusha, quando mi pare. Tifare il Gandzasar. Ascoltare l’armeno tra le tante lingue parlate in una strada trafficata di Baku, con nessuno che vi presta attenzione. Dare il benvenuto ai colleghi armeni in una normale conferenza accademica a Baku per discutere la cooperazione regionale. Una nuova normalità. Difficile da realizzare, ma, spero ancora, possibile. A meno che non lo rendiamo impossibile perseguendo soluzioni illusorie ed esclusiviste vittoria-sconfitta.