Gli hamburger vegani sono salvi, i “sostituti del formaggio” no, e questa è già una notizia (anche se secondo Greta Thunberg tutta questa vicenda della denominazione degli alimenti vegetali ha fatto troppo rumore per nulla). Ma c’è dell’altro, e ce n’è per tutti i gusti nel buffet virtuale del Parlamento europeo.
Nel pomeriggio di ieri si è conclusa una plenaria-fiume condita di voti da remoto e dedicata principalmente alla definizione della posizione dell’Assemblea sulla riforma della PAC, la politica agricola comune dell’Unione europea per i prossimi anni. Il testo che è stato approvato, frutto di un accordo fra i maggiori gruppi dell’Aula – una grande alleanza fra popolari, socialdemocratici e liberali; ve li avevamo raccontati come i tre chef che hanno concordato a tavolino il menu fisso -, approva sostanzialmente il lavoro fatto sinora. Un lavoro iniziato, però, ben prima dell’annuncio del Green Deal per l’Europa da parte della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen: il pacchetto non farebbe registrare infatti grandi scatti d’ambizione o di radicale cambio di paradigma per l’agricoltura europea.
Negli stessi giorni del voto in Parlamento, anche i ministri dell’Agricoltura degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio in Lussemburgo, si sono accordati sulla loro posizione comune in merito alla riforma della PAC. I due pacchetti così approvati formeranno adesso la base per i negoziati interistituzionali, i cosiddetti triloghi, fra rappresentanti del Parlamento e del Consiglio, con la partecipazione della Commissione.
La PAC è storicamente la fetta più imponente del bilancio pluriennale dell’UE: nella bozza per il periodo 2021-2027 sono previsti 344 miliardi di euro; una quota imponente seppur al ribasso rispetto a quanto stanziato nei sette anni precedenti, che era pari al 40% di tutto il budget comune. Oltre il 70% di questi finanziamenti viene erogato sotto forma di sussidi agli agricoltori: tra sei e sette milioni le aziende raggiunte dalle sovvenzioni in tutta l’Unione.
Quasi duemila gli emendamenti al voto (con tutte le difficoltà legate agli scrutini digitali e disseminati lungo l’arco della plenaria) sui tre testi al vaglio degli europarlamentari e che compongono il lotto di riforma della PAC: numeri che denunciano tutta la tensione attorno a dossier che hanno aperto crisi politiche anche all’interno dei gruppi d’Aula (defezioni importanti, ad esempio, fra i socialdemocratici tedeschi e i liberali ungheresi e slovacchi, che hanno votato contro la linea del partito e per il rigetto del pacchetto). È una PAC vecchia, non sintonizzata con gli obiettivi della transizione ecologica in Europa, è l’accusa mossa dagli attivisti per l’ambiente e dalle ragazze e dai ragazzi dei Fridays for Future che, 114 settimane dopo l’inizio della loro protesta, si sono riversati stavolta solo sulla piazza digitale e non per le strade di Bruxelles.
Anche il commissario europeo all’Agricoltura, il polacco Janusz Wojciechowski, ha ammesso che alcuni compromessi – passati senza problemi al vaglio dell’Aula – non sono esattamente in linea con lo spirito del Green Deal, della strategia europea per la biodiversità e con la Farm2Fork, il piano che vuole trasformare in maniera sostenibile i sistemi alimentari europei.
Molto più netto il giudizio di Greta Thunberg: impossibile raggiungere i target climatici europei per il 2030 a fronte di una PAC che resta di fatto inalterata. A inizio mese il Parlamento europeo aveva votato per aumentare il target di riduzione delle emissioni di gas serra nell’Unione dal 40% al 60% (il dato di riferimento è quello del 1990), sulla strada verso il raggiungimento della neutralità climatica nel 2050: un obiettivo-chimera, se non integrato da subito all’interno della nuova PAC, dicono gli attivisti per l’ambiente. Agricoltura e allevamento intensivi, del resto, sono tra le principali fonti di CO2 in Europa, ricordava a inizio anno uno studio dell’Agenzia europea per l’ambiente: è a partire da questi settori che la riduzione delle emissioni va affrontata, se presa sul serio.
Le relazioni sulla PAC approvate dal Parlamento prevedono, fra le altre cose, che gli Stati incoraggino i propri agricoltori a destinare almeno il 10% dei propri terreni a interventi a sostegno della biodiversità, quali alberi non produttivi e siepi, e che tra il 30% e il 35% dei bilanci rispettivamente per le sovvenzioni dirette, i cosiddetti eco-scheme, e per lo sviluppo rurale (i due pilastri della PAC) vengano destinati per migliorare le prestazioni ambientali delle aziende, percentuali superiori a quelle previste dalla Commissione oltre due anni fa, quando presentò l’iniziativa di riforma della PAC (un’era fa, pre-Greta e pre-Green Deal). Nient’altro che greenwashing, hanno fatto eco in particolare Verdi e sinistra, denunciando l’impossibilità per gli Stati di introdurre target ambientali più ambiziosi a livello nazionale e indicando che questa forma di condizionalità “ecologica” non si applicherebbe a oltre la metà delle sovvenzioni.
Tra i banchi del centro-destra, dove la proposta riforma ha registrato un supporto piuttosto compatto, c’è chi ha ricordato la complessa multidimensionalità della PAC: bene il rispetto dell’ambiente, ma la politica agricola comune è essenzialmente un programma di sostegno socio-economico a un settore chiave per l’Europa.
E la vostra dieta a base di proteine vegetali? Tranquilli, non l’abbiamo dimenticato. È – quasi – salva. «Mentre i media vi raccontano la contesa sul nome dei burger vegani, qui si combatte una battaglia per evitare la condanna a morte dell’agricoltura sostenibile», aveva twittato la paladina dei Fridays for Future alla vigilia del voto che ha poi decretato l’appoggio di due terzi dell’Aula al testo.
#VoteThisCAPdown #FutureOfCAP
📸 IG @stoppamemeraff pic.twitter.com/byboLEpfaQ— Greta Thunberg (@GretaThunberg) October 22, 2020
Fair point. Ma la contesa sulla denominazionei è quanto di più simbolico ci sia in questa battaglia sul futuro della PAC: una tensione fra i modelli di sviluppo tradizionali e quelli sostenibili dell’avvenire, per i consumatori e per la natura.
Sul fronte del veggie-burger ban, gli ambientalisti hanno perlomeno non-perso: l’emendamento che avrebbe messo al bando ogni riferimento alla carne nell’etichettatura degli alimenti a base di proteine vegetali è stato infatti bocciato. Ma è stata approvata un’ulteriore stretta per il linguaggio dei prodotti intesi come sostituti dei latticini – bevande «al sapore di yogurt» o alimenti «surrogati del formaggio» -, per i quali il Parlamento chiede che venga eliminato ogni sorta di riferimento agli originali a base di latte animale. Il Consiglio, che non prevede un simile divieto nella propria posizione, potrebbe però chiedere un passo indietro in fase di trattative. «Ma chi consuma proteine vegetali continuerà a farlo: per la propria salute e per l’ambiente», la reazione a caldo di Greenpeace.
Fallito il siluramento della riforma, adesso i gruppi ambientalisti e le organizzazioni non governative puntano tutto sulla procedura. Secondo l’architettura dei Trattati e la Corte di giustizia, infatti, la Commissione europea può modificare (e ritirare) una propria proposta legislativa fino al momento in cui il Consiglio non giunga a un accordo formale sul testo, al termine della fase di “prima lettura”, che nella prassi arriva solo dopo la fine dei negoziati interistituzionali con il Parlamento, una volta messi a punto due testi uguali da approvare.
Insomma, se von der Leyen vuole davvero realizzare il suo Green Deal, farebbe bene a prendere l’iniziativa.