Didattica per adultiIo speriamo che me la cavo a distanza e altre inutili baruffe scolastiche

Abbiamo parlato per settimane, mesi, di banchi a rotelle di cui oggi non si ha notizia, nessuno ne ha mai visto uno. Tutto quel tempo, quei soldi, quelle energie potevano essere spesi per cercare di migliorare il sistema della dad, che oggi viene visto più come alibi che come soluzione. Ma poi chi le avrebbe sentite le mamme?

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«Certo, toccava imparare: io mi son messa lì, ci son voluti dieci minuti; metti anche che ai più tardi ci voglia mezz’ora, si tratta di mezz’ora, non servono dietrologie: è che non hai voglia di fare un cazzo». La prima professoressa con cui parlo di didattica a distanza imputa il di essa essere divenuta l’incarnazione del male assoluto al fancazzismo dei suoi colleghi, per cui anche apprendere l’uso d’una nuova piattaforma è lavoro usurante.

Non deve avere torto, perché interrogando insegnanti vengono fuori casi assortiti: quella che ha interrotto a metà la lezione perché ha finito i giga; quella che «mi collego col mio computer e la mia connessione, pago io, non è giusto»; quello che frigna sul «rapporto umano, come quelli che leggono un libro ogni tre anni e ti parlano del profumo della carta e dello scempio che è leggere gli ebook».

(Naturalmente l’insegnante sfaticato è sempre un altro, mai quello con cui parli, quello con cui parli è uno stakanovista che riferisce limiti altrui: sono sempre gli altri gli evasori fiscali, i parcheggiatori in seconda fila, i raccomandati).

La mia tesi di partenza era che la didattica a distanza fosse stata il grande rimosso di questi mesi. Quella nella quale non investire perché farlo avrebbe significato ammettere che la pandemia non era finita e il ritorno alla normalità non era imminente; o perché «il rapporto umano», appunto; o perché, se facciamo balenare alle mamme medie riflessive che presto avranno di nuovo i figli a casa, quelle chi le sente.

Quando chiedo a un professore milanese se Sala, quando si dice contrario alla didattica a distanza, lo faccia per compiacere le mamme, egli mi ricorda che in questo modo il sindaco si accattiva anche i professori più renitenti: «Lì c’è pascolo elettorale, dagli torto».

La presenza ossessiva, nei discorsi di questi mesi attorno alla scuola, sono stati i banchi con le rotelle. Non voglio scambiare l’aneddotica con la statistica, solo riferire aneddoticamente che nessuno dei professori con cui ho parlato ha nelle proprie scuole banchi a rotelle, né ha, tra i colleghi che conosce, notizie di banchi a rotelle in altre scuole.

Ci dev’essere un triangolo delle Bermude, chissà dove in Italia, che ha inghiottito tutti i banchi a rotelle. Se ne avvistate uno fatemelo sapere.

Insomma, quando ho iniziato a ragionare sulla didattica a distanza non ne sapevo un granché, e pensavo: sì, va bene, i soldi buttati per i banchi a rotelle, ma perché, quando si dice cosa ci si poteva invece fare, non si dice mai che sarebbe stato meglio fornire un computer a chi non se lo può permettere, investire in fibra, fare in modo che se si deve stare a casa due anni non siano due anni d’analfabetismo?

Studiando il tema ho scoperto che in realtà, delle due volte in cui in primavera i soldi sono stati dati alle scuole, la prima era effettivamente vincolata agli acquisti informatici. Ma gli attrezzi coi quali collegarsi venivano consegnati a scuola. Alle scuole chiuse. Che dovevano chiamare i carabinieri per far portare il tablet o quel che era a casa dell’allievo.

Il quale poi non era detto avesse, a casa, una connessione. «E la scuola cosa dovrebbe fare, venire casa per casa a posarti la fibra?», mi chiede retoricamente un’insegnante. La scuola magari no, ma lo Stato in qualche sua altra emanazione perché no? È un’idea così folle?

La seconda tornata di soldi non era vincolata, e allora molte scuole l’hanno usata «per riparare una finestra, o il tetto, o comprare la famosa cartigienica». Sono soldi arrivati a giugno, a scuole chiuse, ma certo la finestra aggiustata sarebbe servita alla riapertura, in qualunque anno essa avvenisse. «Se la scuola non è agibile, la dad non arriva nemmeno quinta tra le tue priorità», sbuffa una prof.

Che poi, i device da dare agli allievi: fosse solo degli allievi, il problema. Se un docente è a casa in attesa del risultato d’un tampone, dovrebbe fare lezione agli alunni in classe. Accantoniamo per un attimo il problema di chi li tiene a bada, venti o trenta ragazzini in una classe mentre la prof è a casa («adesso è arrivato il personale Covid: staranno buonissimi, con uno che non hanno mai visto prima»).

Chi è del mestiere me ne pone un altro, di problema: «La metà delle mie classi non ha linea, non ha computer, non ha una lavagna interattiva: come mi collego?». E, se anche il computer in classe c’è, spesso è fuori dal semicerchio, cioè dalla zona in cui ci si può muovere in epoca di virus, stabilita con complesse geometrie a settembre.

L’allievo senza attrezzatura informatica è il ricatto preferito del docente di sinistra. Me ne forniscono un’imitazione, del prof medio riflessivo: «“Noi siamo lavoratori dell’istruzione pubblica, dobbiamo garantire lo stesso livello a tutti, i più svantaggiati non si collegano”. Quindi, per loro, meglio che la didattica a distanza non la faccia nessuno e restino ignoranti tutti».

Non è che chi sbeffeggia il “lavoratore dell’istruzione pubblica” neghi le diseguaglianze, ma fa presente che il virus «ha evidenziato quelle che già c’erano: io ho una ragazzina cinese che non si collegava mai, così come quando c’era la didattica in presenza non veniva mai a scuola; probabilmente lavora in qualche fabbrica di notte, fotte sega a lei della didattica a distanza o in presenza».

Il che rende brutalmente l’idea di quel concetto rimosso dal discorso pubblico – se non nascosto dietro a eufemismi come “diseguaglianze” – che è l’esistenza delle classi sociali. Dice una prof: «La dad è un amplificatore». Se sei povero e devi studiare da casa, sei poverissimo.

Insomma, le mamme sono assolte. Certo, c’è un fattore di pressione sociale nel loro continuo lagnarsi di questo male assoluto che è istruire i loro figli senza levarglieli di torno cinque ore al giorno, ma i più feroci oppositori del lavorare da casa in pigiama sono, incredibilmente, i docenti.

Perché «magari lo studente prende un fermoimmagine con la tua faccia e ci disegna le corna» (invero una temibile prospettiva); perché «devi uscire dalla tua comfort zone, su Kant non ti fregano, lo sai bene, sono vent’anni che lo ripeti, con nuove didattiche devi imparare nuove cose»; perché hanno incubi come la poca riservatezza del link della lezione, «sai che rischio, se lo passeranno e mezza città si accalcherà davanti alla mia ora su Carlo V»; per «una forma di neoluddismo: pensano che i video delle lezioni finiscano su YouPorn»; e soprattutto perché «la parola chiave del docente è “mansionario”: non voglio perdere un minuto a fare una cosa che non mi compete».

Quello che accomuna tutti gli adulti, docenti e genitori, è il nascondersi dietro ai ragazzini: lo diciamo per loro, mica per noi. Per loro privati della socialità, della presenza, dei limoni all’intervallo e delle sigarette nei cessi. È per i piccini che una minoranza dei grandi lunedì a Milano andrà sotto al palazzo della Regione a urlare contro Fontana, colpevole d’aver messo i licei lombardi in didattica a distanza.

Eppure una ragione sensata c’è, spiega un adulto di quelli che non andranno a urlare perché lunedì staranno facendo didattica a distanza: «Nessuno ci smena se chiudono le scuole. Se chiudi le fabbriche o i ristoranti crei un problema economico, ma nessuno sa se i ragazzi a studiare così avranno problemi diversi da chi è andato in classe. Lo sapremo tra vent’anni, forse».

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