«Certo, toccava imparare: io mi son messa lì, ci son voluti dieci minuti; metti anche che ai più tardi ci voglia mezz’ora, si tratta di mezz’ora, non servono dietrologie: è che non hai voglia di fare un cazzo». La prima professoressa con cui parlo di didattica a distanza imputa il di essa essere divenuta l’incarnazione del male assoluto al fancazzismo dei suoi colleghi, per cui anche apprendere l’uso d’una nuova piattaforma è lavoro usurante.
Non deve avere torto, perché interrogando insegnanti vengono fuori casi assortiti: quella che ha interrotto a metà la lezione perché ha finito i giga; quella che «mi collego col mio computer e la mia connessione, pago io, non è giusto»; quello che frigna sul «rapporto umano, come quelli che leggono un libro ogni tre anni e ti parlano del profumo della carta e dello scempio che è leggere gli ebook».
(Naturalmente l’insegnante sfaticato è sempre un altro, mai quello con cui parli, quello con cui parli è uno stakanovista che riferisce limiti altrui: sono sempre gli altri gli evasori fiscali, i parcheggiatori in seconda fila, i raccomandati).
La mia tesi di partenza era che la didattica a distanza fosse stata il grande rimosso di questi mesi. Quella nella quale non investire perché farlo avrebbe significato ammettere che la pandemia non era finita e il ritorno alla normalità non era imminente; o perché «il rapporto umano», appunto; o perché, se facciamo balenare alle mamme medie riflessive che presto avranno di nuovo i figli a casa, quelle chi le sente.
Quando chiedo a un professore milanese se Sala, quando si dice contrario alla didattica a distanza, lo faccia per compiacere le mamme, egli mi ricorda che in questo modo il sindaco si accattiva anche i professori più renitenti: «Lì c’è pascolo elettorale, dagli torto».
La presenza ossessiva, nei discorsi di questi mesi attorno alla scuola, sono stati i banchi con le rotelle. Non voglio scambiare l’aneddotica con la statistica, solo riferire aneddoticamente che nessuno dei professori con cui ho parlato ha nelle proprie scuole banchi a rotelle, né ha, tra i colleghi che conosce, notizie di banchi a rotelle in altre scuole.
Ci dev’essere un triangolo delle Bermude, chissà dove in Italia, che ha inghiottito tutti i banchi a rotelle. Se ne avvistate uno fatemelo sapere.
Insomma, quando ho iniziato a ragionare sulla didattica a distanza non ne sapevo un granché, e pensavo: sì, va bene, i soldi buttati per i banchi a rotelle, ma perché, quando si dice cosa ci si poteva invece fare, non si dice mai che sarebbe stato meglio fornire un computer a chi non se lo può permettere, investire in fibra, fare in modo che se si deve stare a casa due anni non siano due anni d’analfabetismo?
Studiando il tema ho scoperto che in realtà, delle due volte in cui in primavera i soldi sono stati dati alle scuole, la prima era effettivamente vincolata agli acquisti informatici. Ma gli attrezzi coi quali collegarsi venivano consegnati a scuola. Alle scuole chiuse. Che dovevano chiamare i carabinieri per far portare il tablet o quel che era a casa dell’allievo.
Il quale poi non era detto avesse, a casa, una connessione. «E la scuola cosa dovrebbe fare, venire casa per casa a posarti la fibra?», mi chiede retoricamente un’insegnante. La scuola magari no, ma lo Stato in qualche sua altra emanazione perché no? È un’idea così folle?
La seconda tornata di soldi non era vincolata, e allora molte scuole l’hanno usata «per riparare una finestra, o il tetto, o comprare la famosa cartigienica». Sono soldi arrivati a giugno, a scuole chiuse, ma certo la finestra aggiustata sarebbe servita alla riapertura, in qualunque anno essa avvenisse. «Se la scuola non è agibile, la dad non arriva nemmeno quinta tra le tue priorità», sbuffa una prof.
Che poi, i device da dare agli allievi: fosse solo degli allievi, il problema. Se un docente è a casa in attesa del risultato d’un tampone, dovrebbe fare lezione agli alunni in classe. Accantoniamo per un attimo il problema di chi li tiene a bada, venti o trenta ragazzini in una classe mentre la prof è a casa («adesso è arrivato il personale Covid: staranno buonissimi, con uno che non hanno mai visto prima»).
Chi è del mestiere me ne pone un altro, di problema: «La metà delle mie classi non ha linea, non ha computer, non ha una lavagna interattiva: come mi collego?». E, se anche il computer in classe c’è, spesso è fuori dal semicerchio, cioè dalla zona in cui ci si può muovere in epoca di virus, stabilita con complesse geometrie a settembre.
L’allievo senza attrezzatura informatica è il ricatto preferito del docente di sinistra. Me ne forniscono un’imitazione, del prof medio riflessivo: «“Noi siamo lavoratori dell’istruzione pubblica, dobbiamo garantire lo stesso livello a tutti, i più svantaggiati non si collegano”. Quindi, per loro, meglio che la didattica a distanza non la faccia nessuno e restino ignoranti tutti».
Non è che chi sbeffeggia il “lavoratore dell’istruzione pubblica” neghi le diseguaglianze, ma fa presente che il virus «ha evidenziato quelle che già c’erano: io ho una ragazzina cinese che non si collegava mai, così come quando c’era la didattica in presenza non veniva mai a scuola; probabilmente lavora in qualche fabbrica di notte, fotte sega a lei della didattica a distanza o in presenza».
Il che rende brutalmente l’idea di quel concetto rimosso dal discorso pubblico – se non nascosto dietro a eufemismi come “diseguaglianze” – che è l’esistenza delle classi sociali. Dice una prof: «La dad è un amplificatore». Se sei povero e devi studiare da casa, sei poverissimo.
Insomma, le mamme sono assolte. Certo, c’è un fattore di pressione sociale nel loro continuo lagnarsi di questo male assoluto che è istruire i loro figli senza levarglieli di torno cinque ore al giorno, ma i più feroci oppositori del lavorare da casa in pigiama sono, incredibilmente, i docenti.
Perché «magari lo studente prende un fermoimmagine con la tua faccia e ci disegna le corna» (invero una temibile prospettiva); perché «devi uscire dalla tua comfort zone, su Kant non ti fregano, lo sai bene, sono vent’anni che lo ripeti, con nuove didattiche devi imparare nuove cose»; perché hanno incubi come la poca riservatezza del link della lezione, «sai che rischio, se lo passeranno e mezza città si accalcherà davanti alla mia ora su Carlo V»; per «una forma di neoluddismo: pensano che i video delle lezioni finiscano su YouPorn»; e soprattutto perché «la parola chiave del docente è “mansionario”: non voglio perdere un minuto a fare una cosa che non mi compete».
Quello che accomuna tutti gli adulti, docenti e genitori, è il nascondersi dietro ai ragazzini: lo diciamo per loro, mica per noi. Per loro privati della socialità, della presenza, dei limoni all’intervallo e delle sigarette nei cessi. È per i piccini che una minoranza dei grandi lunedì a Milano andrà sotto al palazzo della Regione a urlare contro Fontana, colpevole d’aver messo i licei lombardi in didattica a distanza.
Eppure una ragione sensata c’è, spiega un adulto di quelli che non andranno a urlare perché lunedì staranno facendo didattica a distanza: «Nessuno ci smena se chiudono le scuole. Se chiudi le fabbriche o i ristoranti crei un problema economico, ma nessuno sa se i ragazzi a studiare così avranno problemi diversi da chi è andato in classe. Lo sapremo tra vent’anni, forse».