«Il Movimento Cinque Stelle deve farsi valere di più al governo», ha detto Luigi Di Maio. Sembra chissà cosa, ma è solo una frase retorica. Il simil-congresso dei grillini ha confermato le impressioni della vigilia: sostanzialmente non sono più una forza politica, ma un gruppo di persone in cerca di brandelli di potere, dunque non si vede come potrà far valere idee che non ci sono e valori che sono evaporati.
Giuseppe Conte perde una stampella – in fondo se è a Palazzo Chigi lo deve proprio al Movimento – però uno come lui alla fine meno rotture di scatole ha meglio è. E un Movimento Cinque Stelle privo di idee e bisognoso solo di restare attaccato dove sta, costi quel che costi, è l’ideale: la forza politica nata per scardinare le istituzioni oggi è il garante più fermo dello status quo: queta non movere, altro che aprire il Parlamento come scatolette di tonno.
Di Maio ha imbastito gli Stati generali, questo funerale del Movimento che fu, e ora può essere soddisfatto che nessuno (tranne Alessandro Di Battista, il quale doveva fare tuoni e fulmini ma ha partorito uno starnuto) discuta la natura governista a ogni costo del partito che solo due anni fa era il primo d’Italia e oggi è al quarto posto.
Per questo il M5s è il vero partito della stabilità, perché i parlamentari sanno bene che non rientreranno, e non solo per la regola interna dei due mandati ma perché non avranno i voti necessari e hanno pure contribuito a diminuire i seggi. E perché, allontanatasi la prospettiva del rimpasto, i ministri si godono il residuo potere senza poi fare molto: nessuno di loro si fa notare per un particolare attivismo, il ministro degli Esteri in testa.