Prima che vedano la versione di Walt Disney, prima ancora che ne sentano parlare da altri: tutti i bambini dovrebbero leggere (o farsi leggere dai genitori) la storia di Aladino nella versione riscritta da Nadia Terranova e illustrata da Lorenzo Mattotti. Segnarsi il titolo: “Aladino e la lampada magica” (Orecchio Acerbo editore).
I motivi sono tanti: la prosa semplice ma raffinata, i disegni esatti e pastellati (ma col tratto del pastello a cera), l’evocazione di un mondo magico sospeso tra Medio Oriente e – sorpresa sorpresa – la Cina, ossia il Catai mitico e misterioso che per i viandanti della via della Seta simboleggiava ciò che era lontano e oscuro.
Nella versione disneyana questo riferimento si perde, qui no, perché Nadia Terranova sceglie di riscrivere il testo originale, o almeno il più antico che si conosce: quello che il traduttore e letterato francese Antoine Galland aveva inserito a forza nella raccolta del XVIII secolo delle “Mille e una Notte”.
Lui dove lo aveva pescato? Non certo nel manoscritto siriano di riferimento (non c’era). Con ogni probabilità glielo aveva raccontato a inizio ’700 il mercante maronita Hanna Diyab, considerato la fonte di almeno altre sette fiabe, compresa quella di Ali Baba. Era il repertorio delle favole della sua infanzia – e chissà quanto è stato modificato dall’immaginazione, esercitata durante le tappe sulle strade dell’impero ottomano, e quanto si è mantenuto della tradizione.
Filologismi a parte, la storia rimane vivace. Aladino è sempre un bel giovane, poverissimo e scapestrato: «Non ne voleva sapere di lavorare: di giorno rubacchiava al mercato facendo comunella con i ladruncoli e le canaglie, di sera, quando la gente perbene dormiva, vagava randagio giocando scherzi a chiunque gli capitasse a tiro. Se i genitori lo richiamavano all’ordine, Aladino li guardava come se non esistessero e subito ricominciava a fare di testa sua». Mattotti lo immagina mentre vaga in una città mediorientale, contornata da palmizi blu e torri di minareti sullo sfondo.
La sua vita cambierà quando incontrerà il presunto zio, ossia un malvagio mago africano (cioè maghrebino), che gli farà conoscere i poteri della lampada. Poi l’incontro con il genio, il primo desiderio realizzato (a proposito: qui il massimo di tre non esiste, le richieste possono essere infinite), la scoperta di voler imparare a lavorare, i primi rudimenti di saggezza («Così Aladino scoprì che al mondo ci sono tanti truffatori quante persone perbene, e che imparare un mestiere non solo l’avrebbe fatto diventare un bravo ragazzo, ma soprattutto l’avrebbe messo al riparo dalla furbizia e dai raggiri degli altri») per culminare con l’innamoramento, improvviso, nei confronti della principessa della città. Per conquistarla, va detto subito, farà ricorso di nuovo alla magia.
È in questa dimensione che si dipanano le sue avventure, un mondo in cui i castelli volanti non destano più stupore di un temporale, le opere di magia sono normali come le spezie e i tessuti e i geni evocati da anelli e lampade obbediscono al proprietario come ingranaggi di un macchinario. Memorabile in questo senso uno degli ultimi scambi: «Eccomi, padrone, come posso servirti?», chiede il genio ad Aladino. «Perché mi hai tradito?» «Non ti ho tradito, io sono il servo del padrone della lampada». «Se il mago africano ti avesse chiesto di uccidermi l’avresti fatto?» «È il mio lavoro».
Solo lavoro, niente rancore. È uno spruzzo di modernità, che ci vuole. E forse la si ritrova anche nel ritratto di un mago cattivo («era abituato a vincere sempre, su tutti, e non era disposto a lasciare a quell’orfanello l’ultima parola») tanto simile a un (quasi) ex potente famoso. Ma si sa, farà una brutta fine.
Quale? Quella apparecchiata dalle due donne, la madre di Aladino e la sposa, che con astuzia riusciranno ad avere la meglio su di lui. E forse è qui la lezione più profonda del testo, anche perché è la meno esplicita: la celebrazione dell’ingegno femminile, risorsa di ultima istanza, intelligenza pragmatica ed efficace. L’unica che sa prevalere nei momenti in cui né la magia né la forza bruta (figuriamoci) possono qualcosa.