La terapia della calma. Va dato atto al meno entusiasmante candidato democratico alla presidenza americana che si ricordi da un pezzo – Joe Biden versione 2020 – d’aver dato notevole prova di esperienza, concentrando la fase di legittimazione della sua invisibile campagna elettorale su un argomento che assumerà una presa long format sulla psiche popolare del suo paese: «diamoci una calmata».
Gli echi della buriana si sentono distinti, quel finale di partita che ha rotto gli argini della decenza ed è sfociata nel demenziale, gli scleri e le mossette di Trump davanti ai fedeli e quei parcheggi desolatamente vuoti che accoglievano Biden, al punto che non serviva nemmeno Gaga a riempirli, coi tiepidi sostenitori chiusi in macchina per il freddo, ma forse anche per lo scarso entusiasmo destato da colui che avrebbero comunque votato, nella speranza di porre fine all’impresentabilità dell’altro (e quei clacson per applaudire… che effettaccio!).
Non c’è stato niente di bello, niente che non provocasse altro ragionamenti plumbei: lo stesso paese nel quale il presidente sfotte e il suo direttore sanitario Fauci, l’uomo che prova a salvare il salvabile e a raccomandare il raccomandabile a una popolazione di riottosi, il paese che continua a vivere il Covid o con terrore o come un misuratore del testosterone, pare non combaciare lontanamente con quello che 12 anni orsono inventò un’idea come Barack Obama, scuotendo alle fondamenta il proprio reticolato di pregiudizi e di errori (su dove sia l’illusione di questa discrasia, conviene approfondire in separata sede).
Questo 2020 è stato l’epilogo del teatro degli orrori, la stagione in cui il combinato disposto Trump + rabbia + emergenza sanitaria hanno estratto il peggio da questo popolo, dalle sue viscere, dal suo inconscio, dai suoi istinti, nelle sue componenti essenziali, l’individuo e la comunità. Tutto evidentemente era ancora depositato là, il Far West, il tremore dell’immigrazione, la paura di perdere i privilegi, il dispetto per la differenza, il razzismo e lo scetticismo verso lo Stato, la voglia di difendersi da soli e di sospettare lo sconosciuto, la difesa di uno stereotipo immaginario.
Adesso alla chetichella, mica trionfalmente come quando accompagnava la carovana dell’alleluja guidata da That’s-What-I-Do Obama, arriva Joe Biden. E l’America, spossata, grondante isteria, scontentezza, con tutti quei conti aperti, le questioni da chiarire una volta per tutte, l’abitudine a vedere omicidi e saccheggi in tv e a sentirne litigare dall’autoradio, l’America che si è prosciugata nella rappresentazione di se stessa – come si sta raccontando questa destrutturazione della nazione? C’è qualcosa di buono da leggere o vedere, che non sia intinto nel memorialismo? – questa nazione affranta è possibile, è auspicabile, che si sieda in salotto e riprenda fiato.
Deve mettere in ordine la To Do List, deve verificare i conti fuori controllo, deve fare l’inventario di se stessa. Deve respirare profondamente. E riflettere. Capire e capirsi – smettendo le pagliacciate del politicamente corretto, del sogno americano, dei miti così inutili e frusti, nei quali non smette viziosamente di crogiolarsi. Qui entra in gioco un uomo come Biden e quella descrizione particolare dell’americanità che porta naturalmente con sé.
Per carità: teniamo lontana la tentazione di pensare che sia il risultato di un raffinato piano di preveggenza, arrivato a concepire questo vecchio politicante come l’antidoto efficace per guarire la nazione dalla febbre di Trump. Ma qualcosa del genere potrebbe davvero succedere: perché non è il momento di iniezioni di innovazione, non è la fase nella quale ci sia in giro alcuna voglia di eccitazione ed eccezionalità.
Quello di cui c’è un bisogno fisiologico è una tregua: sospendere i conflitti, troppo lontani dal trovare una soluzione che non sia formale, di comodo, superficiale – a cominciare da quello razziale. Silenziare le armi dei contendenti, dividere i duellanti, chiudere in casa le fazioni, dove sarebbero ora che imparassero a stare il più possibile, se solo dessero credito agli inascoltati appelli dei buoni medici. Ma se le cose vanno come si prospettano, l’America è fortunata, perché Biden è l’uomo giusto al posto giusto per questa congiuntura – prudente, equilibristico, esperto, in grado di evocare già fisicamente e col suo morbido twang un’America rassicurante e ben disposta, previdente sebbene non visionaria, efficiente, sicura, almeno in superficie empatica, anche se tante possono essere le precisazioni al riguardo.
Un uomo semplice da capire per i connazionali, aderente a un modello di successo classico, anche se terribilmente novecentesco – e questo lo si pensava già quando Obama lo volle accanto a sé come fattore di rassicurazione della sua spericolata candidatura, insomma quando si trattava di convincere l’America bianca e suburbana a produrre lo strappo alla regola, mandare un nero esotico alla Casa Bianca, preferendolo a un ex-ragazzo tutto latte, bourbon ed eroismi come McCain. Biden conosce i meccanismi del potere ma è lungi dall’ostentazione di qualsiasi esoterismo washingtoniano, facendo anzi vanto della sua radice provinciale-chic, approfittando di un look vintage e bon ton che conferma la sensazione di essere al cospetto di una persona seria.
Di fatto è un paziente cucitore, un navigato praticante dell’arte del compromesso, un democristiano atlantico, cattolico, family man, capace di un cameratismo soft, rilassante nella sua americanità orgogliosa, senza strappi, proveniente da un passato di decenza e operosità. Ha una buona storia personale, poche macchie e zone d’ombra, magari non un palmarès da fuoriclasse. Ma è palesemente un personaggio di transizione, buono per un mandato, indispensabile per restituire alla nazione la serenità a posteriori della sbornia Trump, che se volete la si può chiamare esperimento, o assurdità, o fase tutta americana di un trip in bilico tra nichilismo e delirio, non solo perché il personaggio era inadatto a una presidenza, ma perché si è permesso che le sue capacità istintive finissero sommerse da quella liquida incoscienza che gli ha invaso la mente. Ora subentra Biden il calmo, mentre il paese scrolla la testa come un pugile suonato, il virus sferra jab a ripetizione e a bordo ring attende paziente il colosso cinese, in attesa del momento adatto per sferrare l’uppercut definitivo.
Ecco, Biden permetterà all’America di assumere una posizione difensiva composta, le restituirà le personalità atte a riqualificarne la presenza internazionale, rimetterà la bandiera tra quelle delle organizzazioni sabotate e schernite da Trump, parlerà molto al popolo, lasciando da parte le fazioni, le dispute e quei bestiali riflessi di guerra civile a cui le grandi città si stanno abituando. Sarà un back to the future, una medicina provvidenziale. E sebbene sia difficile predisporsi a questa presidenza pensando alla grande Storia, esistono indizi che l’improbabile Biden sia l’uomo giusto al posto giusto.
L’America ha l’occasione di rimettere a posto le lancette del suo orologio, biologico, etico e perfino filosofico. Arriva il tempo della cura, delle analisi, delle domande che non possono restare senza risposta. Un procedimento necessario e interessante, a dispetto della moltitudine schiumante di rabbia selvaggia, ormai liberatasi per le strade del paese, imbracciando enormi fucili con mirini di precisione, con cui ammazzare un grillo a 300 metri. Questa America-Mad Max deve andare dallo psicanalista. E uno come Biden può dolcemente favorire la terapia. Mandando tutti a dormire presto, attento a non svegliare nessuno, nel cuore della notte, quando si avvicinava la fatale ora dei tweet al fulmicotone.