Il migliore editoriale sulle elezioni americane sta in quindici secondi di video twittati da Olivia Raisner, che cura i social network per la campagna di Joe Biden.
Erano in Michigan: Barack Obama, il presidente passato alla storia per la fotogenia, il Kennedy dei neri, era lì a fare campagna per il suo ex vice, ora candidato presidente. Forse avete visto una foto in cui i due reggevano un cartello con un fantasma di Halloween, e la scritta «Don’t boo, vote» (incitamento già formulato da Obama in vari comizi: invece di fischiare l’avversario, caro il mio elettorato esagitato, vai a votare).
Stanno andando via da quello stesso campo, dove c’è quindi stata una qualche iniziativa elettorale, hanno tutti le mascherine perché sono la sinistra disciplinata, e Obama fa segno a qualcuno di passargli il pallone. È già fuori campo, distante dal canestro, e fa Obama.
Cioè fa quello che senza sforzo, senza sudare, senza agitarsi, dà un colpo di polso e fa centro da lontano. Poi fa la cosa meno cool del mondo, ovvero rimarca la coolness: mentre se ne sta andando tra gli applausi per il canestro disinvolto, mentre se ne va si volta, abbassa la mascherina, e dice «That’s what I do», è così che faccio io. Sono il più figo, e mi dispiace per gli altri.
E a quel punto l’americano medio, quello che suda e canestro non lo fa lo stesso, quello che la coolness non sa dove stia di casa ma è lieto che non stia alla Casa Bianca, ad affaticarlo ricordandogli ogni giorno la sua inadeguatezza, quello che non vuole aspirare, vuole immedesimarsi, quell’americano lì a quel punto corre a votare Trump.
Ho pensato centinaia di volte, in questi mesi, a cosa succederebbe. A una mattina, tra 48 ore, in cui ci svegliamo ed è successo ciò che ci eravamo rifiutati di prendere in considerazione: che Trump ha vinto di nuovo.
Nonostante tutti i commentatori colti ne dessero per certa la sconfitta (ma la davano per certa anche con Hillary); nonostante tutti gli sceneggiatori e i romanzieri e i giornalisti americani che seguo su Twitter abbiano da mesi scelto la linea «votate Biden perché Trump vi ha fatto morire i nonni di Corona», come ci fossero governi che invece hanno trovato una soluzione a una pandemia; nonostante l’impresentabilità: anzi, proprio per quella.
C’è una scena d’un film di vent’anni che a tutti piace moltissimo citare. Il film è Almost Famous, storia d’un ragazzino che va a intervistare una rock band. È una storia autobiografica: il regista, Cameron Crowe, da ragazzino lavorava per Rolling Stone. Ed ebbe davvero come maestro una leggenda del giornalismo musicale, Lester Bangs, che nel film è Philip Seymour Hoffman.
Insomma a un certo punto il ragazzino lo chiama dal tour, sta seguendo la band, è un quindicenne di provincia e gli gira la testa in quel mondo lì. E Bangs gli dice io lo so cosa ti hanno fatto, ti hanno convinto che siete amici, ti hanno convinto che sei un figo, ma io ti conosco, tu non sei un figo. You are not cool. Il ragazzino sa che ha ragione, ma non ci vuole credere. Come noialtri che citiamo la scena simulando autoironia, noialtri, gl’intellettuali che quest’epoca può permettersi, che guardiamo Obama e abbiamo nostalgia di quella presidenza così instagrammabile, così aspirazionale, che ci faceva così brillare di coolness riflessa. Che ci convinceva che anche noi, come lui, fossimo dei fighi.
Ogni volta che vedo una foto di Trump, nella sua orrendità, con quel fondotinta che non se ne vedeva uno così sbagliato da quando Emilio Fede conduceva il tg, con quei capelli che fanno venir voglia di rivalutare tutte le parrucchiere che ci hanno sbagliato la tinta nella nostra vita (una doveva farmi mogano e mi fece rosa: chiedo scusa per quella piazzata del 1988, Trump ridimensiona ogni gravità), con quella cravatta della lunghezza sbagliata, ogni volta penso che forse solo Salvini suppliva altrettanto bene al bisogno profondo di guardare le foto sui giornali e pensare: ma quanto sono meglio io, quant’è meglio la mia immagine nello specchio, quant’è meglio la cena nel mio piatto.
Se il «That’s what I do» l’avesse detto Trump, l’avremmo spernacchiato a oltranza, noi illusi che la coolness non ci escluda, noi inconsapevoli di somigliargli. L’avremmo spernacchiato perché puoi maramaldeggiare solo se sei figo come una rockstar, mica se t’illudi d’essere figo come un intervistatore di rockstar.
Nel kolossal che scriverei, «That’s what I do» sarebbe la frase d’inizio del secondo mandato Trump. Metterebbe sul mercato un vaccino finto oggi, gli americani grati correrebbero a iniettarselo e a votarlo, e poi, quando si scopre che era acqua distillata, ormai è tardi e lui è di nuovo presidente. Gli chiederebbero perché ha mentito agli elettori sul vaccino, se non si vergogni, se non lo ritenga un colpo di stato, e lui: That’s what I do.
L’edizione americana di Vanity Fair ha chiesto a sceneggiatori, romanzieri, autori televisivi ed ex trumpiani redenti di scrivere l’ultima scena di Trump come fosse un copione. Quasi nessuna fa ridere (forse il più spiritoso è l’ex portavoce di Trump, Anthony Scaramucci, che dice che, quando Trump non vuole uscire dal bunker, lo attirano fuori con un Big Mac), e mi sono chiesta perché: sono tra i più bravi che ci siano, diamine. È perché nessuno pensa a una scena vittoriosa. Hanno deciso che neanche per scherzo, per ipotesi distopica, per gesto creativo si possa concepire che l’America elegga di nuovo Trump, quello brutto e cattivo, quello che somiglia al suo elettorato.
Il Saturday Night Live è un varietà molto di sinistra epperò già accusato d’aver fatto condurre una puntata a Trump nel 2015 (quelli che non sanno parlare direbbero: «sdoganandolo»); insomma, accusato delle stesse accuse rivolte ai talk che in Italia invitano Salvini: la sinistra è scema allo stesso modo in tutto il mondo. Ieri il SNL era di nuovo colpevole: sabato sera era condotto dal comico John Mulaney, che ha così sintetizzato le imminenti elezioni: «È un concorso tra due anziani signori, qualunque dei due vecchi signori scegliate non cambierà molto per l’America, i ricchi continueranno a prosperare e i poveri no». Come osa, non si scherza sulle scelte epocali.
(Maureen Dowd ha scritto ieri che è perché Trump è talmente raccapricciante che non è possibile occuparsene con leggerezza, scrivere i pezzi di colore che erano normali coi suoi predecessori. È quello, o è che ci siamo convinti di dover salvare il mondo a ogni stronzata che twittiamo?).
La cosa che però mi pare più grave è che non venga riconosciuto a Trump il suo più gran merito: essere quello che ci ha fornito materiale di conversazione per quattro anni. Di che cosa parleremmo, da mercoledì, se l’America dovesse avere di nuovo un presidente presentabile?
Della fotogenia di Kamala? Del polleggio (scusate il bolognesismo) con cui scende dalle scalette degli aerei in scarpe da tennis? Del suo essere una Barack col filo di perle?
O dei cari vecchi argomenti anni Novanta, ve li ricordate quei beati anni senza social e quando l’Italia era leader nel campo dell’impresentabilità governativa? Non so: potremmo tornare a parlare di metrosexual, recuperare un’età dell’innocenza in cui se un maschio si spinzettava le sopracciglia potevi irriderlo senza temere d’insultare la sua identità di genere, e se la sinistra diceva che il capo della destra rappresentava la fine della democrazia potevi sbeffeggiarla senza sentirti di destra.
Potremmo tornare a quel secolo troppo breve in cui, se eri a casa, potevi dire come Lester Bangs che tu eri sempre a casa, perché mica eri un figo. Potremmo fare quel che la presidenza Trump non ci ha permesso di fare in questi quattr’anni: far tornare cool l’uncoolness. Non sarebbe bellissimo?