Catanzaro è quella geolocalizzazione che è al tempo stesso tragedia e farsa.
L’unico che sembra smaniare per andarci è Gino Strada, evidentemente mai sazio di terzo mondo: ogni giorno c’è qualche suo amico che dice severo che il governo ha il dovere di conferirgli pieno mandato per andare a fare il commissario per la sanità in Calabria (qualunque cosa essa sia).
O forse gli amici non sono così amici: vogliono pur sempre mandarlo a Catanzaro.
Gli altri – quelli che non sono Gino Strada – sono più restii ad andare a Catanzaro di quanto Melania Trump lo fosse a trasferirsi a Washington (ricordate quella insuperata prova di devozione coniugale che fu il primo anno della presidenza Trump, quando lei si rifiutava di traslocare dall’appartamento dorato di New York in quella Casa Bianca troppo minimal?).
L’ultimo, ieri, tal Eugenio Gaudio, ex rettore della Sapienza, che avrebbe dovuto diventare il nuovo commissario (dopo quello che non sapeva se aveva fatto un piano contro il virus, ma era perché l’avevano drogato; e dopo quello che diceva che il virus lo prendevi solo limonando almeno un quarto d’ora, cioè certo non dopo i ventidue anni).
Ha comunicato che non assume l’incarico, con la migliore e più plausibile delle scuse: «Mia moglie non ha intenzione di trasferirsi a Catanzaro», ha articolato, dopo aver risposto in prima istanza «motivi familiari», come quando non andavamo a scuola.
Acciocché i lettori di quest’articolo possano offendersi perché sono nordista, classista, abilista, e tutti gli ismi possibili, elenco qui le mie qualifiche per parlare di Catanzaro.
Non sono mai stata in Calabria, conservo la mia verginità per il giorno in cui ci andrò in Vespa e, citazionista, sospirerò «Catanzaro, pensavo peggio».
Non sono mai stata in Calabria, ma ci ho molto provato. L’anno scorso volevo andare a un concerto a Roccella Ionica. Mi sono informata con amici calabresi (non ho niente contro i calabresi, ho molti amici calabresi, sono sensibilissimi, fosse per me lascerei pure che adottassero). Essi mi hanno fatto desistere illustrandomi tragitti, per arrivare dall’aeroporto al primo albergo decente e da lì al concerto, che facevano sembrare l’Erasmus un viaggio fatto in Concorde.
Non me lo sarei mai aspettato giacché – e qui veniamo al secondo punto del mio curriculum d’esperta di Calabria – so persino che la Salerno-Reggio Calabria è stata completata. Anche se nessuno è mai riuscito a spiegarmi chi potrebbe mai aver voglia d’andare da Salerno a Reggio Calabria.
Infine, ma non meno importante, a un certo punto della mia infanzia ho avuto una babysitter calabrese. Toglieva il malocchio schizzando dell’olio in scodelle piene d’acqua, e portava minigonne cortissime. Ah, aveva spesso incrociato Loredana Berté, in paese – o almeno così diceva.
Insomma, sono praticamente una studiosa della Calabria.
Ne so di sicuro più della signora Gaudio, che secondo me non ha abbastanza amici calabresi. Posso imprestarle i miei, se le servono per ambientarsi.
Ieri li ho chiamati tutti, e a tutti ho chiesto: parlami di Catanzaro.
Primo amico: «Per raggiungerla bisogna percorrere un ponte fatto da Morandi» (cominciamo benissimo).
Il secondo mi ha risposto secco: «Io sono di Reggio, so solo che Catanzaro fa ancora più schifo».
Ho poi scoperto che, sarà per quelle distanze statunitensi, esistono rivalità locali. Non solo quelle che stavano nei nostri sussidiari d’infanzia, la siderurgia qua, la barbabietola da zucchero là, Bologna importante nodo ferroviario, i moti di Reggio avvennero quando Catanzaro fu fatta capoluogo.
Macché. In confronto i toscani son gente serena nei confronti dei vicini di codice postale.
Amica titolare della terza telefonata: «A noi dello Stretto fa schifo la Calabria della ‘nduja» (se ho capito bene, verso lo Stretto si mangia più siciliano: ve l’ho detto che sono esperta).
«Li odiano tutti perché i socialisti hanno fatto avere a Cosenza la prima università» (ah, quindi c’è gente che fa l’università in Calabria, ma tu pensa quanti dettagli esotici si apprendono. Gaudio ha detto a Repubblica che i figli li ha mandati a Cambridge, chissà come mai l’ha preferita a Cosenza).
A ogni telefonata un nuovo abisso di ragioni della signora Gaudio. Scusa, ho chiesto a un certo punto a un’interlocutrice che pronunciava «Catanzaro» con la z dura invece che con quella dolce che usiamo noi madrelingua italiani, ma perché lo pronunci così? «Da noi si pronuncia così, mi ha risposto impermalita, procedendo poi a illuminarmi: in compenso pronunciano dolce la zeta di Lamezia, che noi nel mondo civile pronunciamo dura. Forse anche la signora Gaudio ha amici calabresi, forse ha messo il veto dopo averli chiamati.
Intanto, mentre io facevo un reportage su Catanzaro che Chatwin in confronto era un dilettante, Luca Bizzarri su Instagram si candidava in quindici secondi al ruolo rifiutato da Gaudio. Elencava tutte le sue competenze farmaceutiche («il Synflex è arancione, il Viagra è azzurro») e parlava pure calabrese. Non ha neanche una moglie che pretenda di decidere dove risiedere, io foss’in Speranza ci penserei.
Living in Catanzaro is never easy, ma Bizzarri può farcela. Anche se la signora Gaudio s’inserisce in una solida tradizione.
Ieri, tra un reportage e l’altro, ero al telefono con un amico. Infaticabile segugia della notizia, ho chiesto anche a lui se sapesse qualcosa di Catanzaro. Mi ha detto che suo zio aveva vinto un concorso per la sede di non so cosa a Catanzaro. Sua zia, pur di non seguirlo e rimanere a vivere nel mondo civile, divorziò.
È stato allora che ho capito che Roberto Speranza è più rovinafamiglie di Liz Taylor.