Stare all’occhioCome riconoscere una buona burrata

Aspetto, olfatto, gusto, ma soprattutto le istruzioni per tagliarla senza perdere una goccia di ripieno: ecco tutto quello che c’è da sapere sul formaggio fresco simbolo della cultura gastronomica in Puglia

La burrata è un lemma imprescindibile del dizionario gastronomico pugliese. Il suo sacchetto lucido, latteo, ripieno di stracciatella, è un invito a freschi peccati di gola, che un po’ sanno d’estate, quando basta poco per saziarsi. Col tempo gli sfilacci di mozzarella rivestiti di panna sono diventati anche ingredienti di primi piatti e risotti. Ma come portata unica non teme rivali. Con un pizzico di pepe e un filo d’olio nuovo, la burrata pugliese è un piatto regale proprio perché completo nella sua semplicità. Lo hanno capito anche fuori dai confini nazionali. Come spiega Gabriella Cristofaro, Export Manager di Caseificio Palazzo, una grossa fetta del fatturato export dell’azienda di Putignano (Ba) è legato alle esportazioni della burrata classica. Nel 2018 il ministero delle Politiche Agricole e Forestali ha conferito il titolo IGP alla burrata di Andria (BT), aggiungendo un altro prodotto al patrimonio gastronomico tutelato e garantito della Regione. Ma com’è fatta una buona burrata? Come riconoscerla e soprattutto, come tagliarla per renderle il giusto omaggio a tavola? Facciamo chiarezza.

La nascita della burrata

Nonostante i saperi gastronomici pugliesi sono fatti di conoscenze e saperi condivisi e stratificati, nel caso della burrata il nome dell’inventore è uno solo. Secondo ciò che si racconta, si tratterebbe di Lorenzo Bianchino, casaro della masseria di Piana Padula, località che si trova all’interno dell’odierno Parco Nazionale dell’Alta Murgia, nel nord barese. Sulla data ci sono più dubbi: c’è chi dice che la burrata sia nata tra gli anni Venti e Trenta, c’è chi si sposta in avanti fino agli anni Cinquanta. Il casaro ha inventato questo formaggio in occasione di un’abbondante nevicata. Isolato nella masseria, non poteva trasportare il latte in città. Per non buttarlo – dato che questa anche all’epoca non era un’opzione – Bianchino si mette a recuperare la panna che affiorava naturalmente dal latte. Sfruttando il procedimento per la conservazione del burro, crea un involucro con la pasta per la mozzarella per cercare di conservare il prodotto fresco all’interno. Insieme alla panna, Bianchino inserisce anche dei residui di pasta filata. Ed eccola, la ricetta perfetta per la burrata che è giunta fino a noi.

Gli ingredienti per la burrata

Gli ingredienti per la burrata sono semplici: latte pastorizzato (possibilmente della Murgia barese), panna uht, sale e caglio. Il disciplinare che norma la produzione della burrata IGP prevede l’uso del latte innesto, del siero innesto e di acidi alimentari come agente acidificante. Proprio sul siero innesto e l’uso del caglio animale, i produttori stanno lavorando per diversificare i propri formaggi freschi.

«Il siero innesto è un metodo tradizionale di acidificazione del latte, andato in disuso col tempo, che Caseificio Palazzo conserva e utilizza per produrre tutti i suoi formaggi – spiega Cristofaro – L’impiego di acido citrico velocizza e standardizza la produzione, garantendo anche una maggiore resa del latte. Il siero innesto, invece, funziona un po’ come il lievito madre in panificazione. È ottenuto quotidianamente durante il naturale processo di lavorazione del formaggio: una parte diventa ricotta, una parte viene scartata e un’altra ancora è conservata in silos. Quando raggiunge una certa acidità, il siero viene usato nella caseificazione. È una tecnica complessa, che richiede la trasformazione del mastro casaro in una sorta di alchimista».

Il siero innesto viene “rinfrescato” con quello recuperato ogni giorno. Questa tecnica ha tre vantaggi: porta nella burrata i profumi naturali del latte e permette di limitare l’uso del sale, elemento su cui le aziende lavorano per differenziare il proprio prodotto sul mercato. Col siero innesto si riesce a portare la quantità di sale a meno di un grammo.

Per quanto riguarda il caglio, si può scegliere quello animale, vegetale o microbico. Nel caso del Caseificio Palazzo si lavora con caglio microbico, e, per questo, la maggior parte dei formaggi della linea Murgella, è identificabile con il marchio V-Label in etichetta. Una buona burrata non dovrebbe avere né additivi né conservanti.

Come si fa la burrata

La burrata nasce attraverso tre macro fasi. C’è la preparazione pasta filata, da cui si produce la stracciatella, che altro non è se uno sfilaccio di mozzarella. Qui si gioca la definizione della texture della burrata. «Funziona come la pasta rigata: gli sfilacci devono essere abbastanza filamentosi per trattenere la panna». Poi si passa alla farcitura. Dalla pasta filata si crea un sacchetto, riempito poi con la stracciatella e panna. Questo involucro non deve essere invadente per esaltare il ripieno.

Il sacchetto viene ricomposto con chiusura apicale. La parte sottile può venire legata ulteriormente con un filo di rafia.

Burrata: la degustazione

Per riconoscere una buona burrata, l’analisi passa prima dall’aspetto. La burrata classica deve essere lucida, di colore bianco latte. Bisogna fare attenzione a notare sfumature giallognole o screpolature, segno che il prodotto è un po’ vecchio. All’olfatto, deve arrivare l’odore del latte e nient’altro, specie se si tratta di una burrata classica. Se invece è affumicata, questo sentore deve essere leggero. Anche qui, se la burrata puzza o ha un odore più forte, si tratta di un prodotto vecchio. Infine, è ora di dare il primo morso. Il gusto deve essere delicato, tendenzialmente non acido, lattico, con sentori di burro fresco e panna fresca. «Assieme a questi aromi nella burrata prodotta con siero innesto – spiega Antonio Fracchiolla, esperto e sommelier di formaggi – si avvertono anche dei richiami gustativi di yogurt».

Come tagliare la burrata

Lucida e soda, la burrata e la sua forma richiedono reverenza. Ma per mangiarla, dobbiamo tagliarla e qui viene la parte difficile. Dato che la burrata va consumata a temperatura ambiente, il rischio è che il ripieno scappi via dal sacchetto una volta tagliato a metà. Per questo è bene raffreddarla un po’ in frigo, affinché il ripieno rimanga più compatto. E poi, come fare? «Se la burrata ha la testa, tagliamola e teniamolo da parte insieme alla rafia, poi tagliamo a metà. Se fredda, al taglio sarà più compatta. Consumarla poi a temperatura ambiente».

Burrata classica & co.

La burrata pugliese piace, non solo in Italia. Produttori come Caseificio Palazzo hanno iniziato a lavorare per togliere i (pochissimi) punti deboli di questo bellissimo formaggio. Per evitare l’effetto liquido del ripieno, che va disperso al taglio, si usa una panna più densa in modo da valorizzare il ripieno, che al taglio rimane intatto. Con lo stesso obiettivo, si cerca di lavorare un involucro molto sottile. E, con grande dolore per i tradizionalisti dell’estetica della burrata, si è prodotta una versione senza testa. «Abbiamo scelto di eliminarla per valorizzare ancora di più il contenuto. La risposta internazionale è stata incredibile».

Se i consumatori sembrano orientati verso la burrata classica, anche quelle con ripieni innovativi riscuotono molto interesse. Palazzo ha lanciato la burrata al tartufo, nata dalla richiesta del mercato europeo; quella affumicata, in cui però i sentori restano lievi e naturali. Il Caseificio Montrone di Andria ha sperimentato quella al pesto. Fuori regione, il Caseificio San Leonardo di Salerno si è avventurato nella burrata al pistacchio. C’è anche chi, come il Caseificio Stella di Cecca di Altamura, in provincia di Bari, sta lavorando (sempre con la tecnica di siero innesto) prodotti che assomigliano a veri e propri crossover regionali: la burrata al blu di capra. È solo un sacchetto di pasta filata, ma si sa, la seduzione ci tende continui tranelli, soprattutto a tavola.

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