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I paladini della scrivaniaGiù le mani dallo smart working

Da una parte sindaci spaventati dalle città vuote e manager che temono l’assenza di controllo a vista, dall’altra i sostenitori della rinascita dei borghi. Quello che serve, invece, è costruire la nuova normalità del lavoro intelligente

(Pixabay)

Anche nel dibattito sullo smart working, in Italia si sono schierate due tifoserie. Da una parte i sindaci spaventati dalle città vuote, dall’altra i sostenitori della rinascita dei borghi. C’è chi spinge per il prolungamento del lavoro agile e chi vorrebbe riportare le lancette dell’orologio a prima che il Covid-19 sconvolgesse le nostre vite. Non solo primi cittadini intimoriti dagli effetti economici della mancata pausa pranzo, ma anche manager che temono l’assenza di controllo sui dipendenti.

È in atto una «battaglia sul futuro del lavoro», ha scritto l’Economist. Dai baristi ai tassisti, il desiderio è uno: che si torni dietro le scrivanie. Eppure pensare di considerare un incidente di percorso il fatto che milioni di persone si siano ingegnate per continuare a lavorare da casa sarebbe da ingenui. In pochi mesi, è successo quello che normalmente accade in 10-15 anni.

Piuttosto, ci sarebbe da ammettere che quello che abbiamo sperimentato è qualcosa di molto meno “intelligente” dello smart working. E subito dopo ragionare sulla nuova normalità da costruire per evitare che l’effetto lockdown continui anche a lockdown finito.

Se il mondo dopo il virus non è lo stesso, neanche il lavoro può tornare al passato. Anzi, è proprio dal lavoro che passano tutte le grandi trasformazioni da attuare con i miliardi del Next Generation Eu. È dalla «guerra del panino» a pranzo – come l’ha chiamata Paolo Manfredi – che potrebbe dipendere il futuro del capitalismo. È dalla “nuova geografia del lavoro” che bisognerà partire per ridisegnare città, uffici, case.

La smaterializzazione dello spazio e del tempo del lavoro era già partita da tempo. Pensiamo ai rider, che hanno bisogno solo di un login e una bici per lavorare. Forse l’esempio non è dei più felici, ma ora sta accadendo con una velocità mai vista.

In Spagna hanno già varato una legge. In Italia, si è aperto un tavolo con le parti sociali per scrivere le nuove regole.

Per prima cosa, però, bisognerebbe capire cos’è lo smart working, che non è lavoro da casa. Quello smart è un lavoro che ragiona su obiettivi, lasciando la libertà di gestire il tempo e gli spazi, sulla base di una nuova organizzazione basata sulla fiducia. Non si tratta solo di connessione: c’è da cambiare lavoratore e datori di lavoro. Mettendo qualche regola.

Richard Sennett, della Columbia University, solleva il rischio dell’isolamento dello smart worker. I lavori che più si prestano a esser svolti solo da casa sono quelli ripetitivi, con il pericolo di una alienazione 4.0. Manager e creativi invece possono alternare più facilmente lavoro virtuale e in presenza. Il pericolo è che lo smart working produca vantaggi solo per alcuni, e per lo più uomini, visto che le donne potrebbero essere più propense a lavorare da casa per conciliare gli impegni familiari.

Secondo un sondaggio di Slack, solo il 12% degli smart worker desidera tornare in ufficio a tempo pieno, l’11% vuole restare a casa. Il resto chiede un mix.

Una formula potrebbe essere quella proposta da Laura Di Raimondo, direttore di Asstel: «Trovare l’equilibrio tra il diritto alla disconnessione e il diritto all’inclusione». Un punto di equilibrio, che necessita anche di un welfare rinnovato. E qui torna il Recovery Plan. Perché ci sono ingranaggi da mettere a posto per far girare la nuova catena di montaggio.

Le priorità delle linee guida del governo sul piano europeo trovano una risposta proprio nello smart working. In primis perché per funzionare ha bisogno di banda larga, 5G e competenze digitali. E soprattutto perché favorisce quella transizione verde sbandierata in ogni dove. In Italia, si respira bene solo in una città su dieci. L’effetto del non recarsi ogni giorno negli uffici in centro è quello di decongestionare le strade. Ma i dati dicono anche che ci si sposta di più per andare al lavoro in contesti urbani piacevoli, dove ci si muove in bici. Quale migliore occasione per riprogettare le città, allora. E magari qualcuno potrebbe aver voglia di tornare a fare pausa pranzo con i colleghi.

*Articolo pubblicato sul dorso “Il lavoro che verrà” de Linkiesta Paper