Il rimbalzo è arrivato, l’atteso incremento del PIL nel terzo trimestre di quest’anno, quello estivo, quello delle riaperture e della ripresa delle attività dopo il lockdown primaverile.
ll +16,1% rispetto al trimestre precedente di luglio, agosto, settembre, che equivale a un -4,7% tendenziale (ovvero rispetto allo stesso periodo del 2019), è allo stesso tempo l’aumento più forte della storia italiana e il più triste, perché destinato a essere reso vano dalla seconda ondata della pandemia e dalla restrizioni che vengono ogni settimana inasprite.
Ma a essere significativo, più che il dato nudo e crudo del PIL, è l’impatto sull’economia reale, soprattutto in termini di occupazione.
Il rimbalzo estivo si è riflesso anche in quello del numero degli occupati con un recupero di posti di lavoro che, come nel caso del Prodotto Interno Lordo, naturalmente non si è tradotto in un ritorno ai livelli del 2019: rispetto a un anno prima a fine settembre i lavoratori in meno sono ancora il triplo di quelli recuperati. E sono sempre i soliti, quelli appartenenti alle categorie più svantaggiate, lavoratori a termine e giovani in primis.
Perché rispetto a giugno, quando si era toccato il livello minimo, ad aumentare sono stati quasi solo i posti a tempo indeterminato, che a settembre erano cresciuti di 175 mila circa. Quelli a termine erano solo 26.400 in più, minimo il cambiamento per gli autonomi.
Dati ISTAT, Variazione da giugno
Per i lavoratori a tempo determinato non si può neanche parlare di rimbalzo, visto che dei posti persi a marzo, aprile, maggio, quando rispetto ai mesi precedenti erano calati di circa 143 mila, 130 mila, 61 mila unità rispettivamente, molto meno del 10% è stato recuperato d’estate. Senza contare che già tra novembre 2019 e febbraio 2020, senza nessuna pandemia, solo per effetto della stagnazione dell’economia, i lavoratori a termine erano diminuiti, sempre rispetto al mese precedente.
Dati ISTAT, Variazione rispetto al mese precedente
Nel conto finale annuo a settembre 2020 questi dipendenti erano il 12,8% di un anno prima, a fronte di una riduzione media dell’1,7%, dato su cui ha influenza l’incredibile progresso dei posti a tempo indeterminato, che sono addirittura aumentati, del 0,7%, ovvero 107 mila persone, rispetto al settembre 2019.
Dati ISTAT, Variazione rispetto a settembre 2019
Chiaramente incide moltissimo il divieto di licenziamento, che trasformerà probabilmente la fase post covid in una strage di posti, ma in realtà l’aumento che si è verificato negli ultimi mesi significa che ci sono state anche assunzioni, segno di un mercato del lavoro molto segmentato, in cui vi sono settori che a dispetto di tutto tirano e di professionalità spendibili in ogni momento.
Un mercato segmentato vuole però anche dire maggiore disuguaglianza, è inevitabile. E non solo a livello di contratti, ma anche di fasce di età. Anche in questo caso a godere di un rimbalzo non sono state quelle più colpite dal lockdown primaverile.
A settembre risultava che in tre mesi era aumentata di 56.800 unità l’occupazione dei 50-64enni, e di 66.700 quella dei 35-49enni, mentre i nuovi lavoratori al di sotto dei 35 anni erano aumentati solo di 47.800.
Dati ISTAT, Variazione da giugno
In particolare sono i 25-34enni quelli che se la sono vista peggio. Per loro di fatto non c’è stato neanche quel rimbalzo, pur molto parziale, che ha interessato i più giovani. Costoro se si calcolano i dati con uno spettro annuale risultano ancora quelli che hanno perso più posti, il 7,6%, ma qualcosa hanno recuperato da quando a giugno il crollo rispetto a settembre 2019 era del’11,3%.
Invece così come nel caso dei lavoratori a tempo indeterminato, tra cui non a caso la grande maggioranza di loro si ritrova, anche i 50enni e 60enni non hanno subito danni dal lockdown, e il numero di occupati in questa fascia di età è persino cresciuta dell’1,9% in un anno. E anche qui proprio coloro che non ci avevano rimesso durante la primavera sono quelli che hanno guadagnato di più durante l’estate.
Dati ISTAT, Variazione rispetto a settembre 2019
Non si tratta solo dell’effetto delle dinamiche demografiche, che vedono la fascia dei baby boomer in crescita, anche il tasso di occupazione è cresciuto, dello 0,2% in questo segmento. Mentre è calato del 3% tra i più sfortunati, i loro figli, i 25-34enni.
Questa asimmetria tra discesa e risalita, che vede, a dispetto di quello che ci sembrerebbe più logico, e diciamo anche più giusto, chi ha subito di più recuperare di più, l’avevamo notata anche durante la Grande Recessione, con i Paesi come l’Italia che avevano perso più percentuali di PIL essere anche quelli che durante la ripresa avevano arrancato maggiormente.
Perché in economia funziona così, contano i fondamentali e le condizioni strutturali, non c’è nessuna giustizia superiore redentrice che aiuti chi sta peggio, anzi.
Così come durante il lockdown sono stati sacrificati i lavoratori più marginali, quelli a termine, in maggioranza giovani, in particolare nei settori con margini inferiori, come il commercio. Così con le riaperture, per l’incertezza di una seconda ondata, non si è provveduto a fare assunzioni, ce la si è cavata con il personale che c’era, e al contrario gli stessi lavoratori qualificati a tempo indeterminato che in primavera lavorando in smart working non avevano avuto nulla da temere sono gli stessi che in estate hanno anzi avuto opportunità addirittura di nuove assunzioni in quegli ambiti, dal digitale al farmaceutico, che non hanno sofferto la pandemia.
Una nota positiva può essere il relativo recupero dell’occupazione femminile; rispetto a giugno a settembre si erano ricostituiti 111.500 posti di lavoro femminili e 87.600 maschili.
Dati ISTAT, Variazione da giugno
Non basta a colmare il gap prodotto dalla crisi. Il calo dell’occupazione subito dalle donne, del 2,4%, rimane superiore a quello degli uomini, -1,1%. A dimostrazione che le prime sono maggiormente occupate in settori più fragili e in cui le oscillazioni della congiuntura sono maggiori.
Dati ISTAT, Variazione rispetto a settembre 2019
È tuttavia almeno in parte una buona notizia. Soprattutto se la associamo alle evidenze di lungo periodo per cui da un 10 anni la differenza tra i tassi di occupazione maschile e femminile ha teso a ridursi, almeno durante i periodi “normali”.
Ma è tutto il resto, la maggiore disuguaglianza tra giovani e anziani, tra garantiti e precari, che siano piccoli commercianti o assunti a termine, che ci deve fare preoccupare.