Il mattatoreL’Italia è quella commedia mitomane di cui Fabrizio Corona è autore e protagonista

Domani esce l’autobiografia (la terza? la quarta?) del sedicente burattinaio dello star system italiano. Sulla copertina della sua ennesima confessione appare nudo. Ditemi voi se non è il Sorpasso che ci serve per raccontare questo secolo

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Pensate a un seguito del Sorpasso, ma ambientato al giorno d’oggi.

Lo so, l’Aurelia non è più quella d’un tempo, e pure Vittorio Gassman non è che ne nascano, ma fate finta per un minuto di crederci.

Un seguito che sia oggi ma che sia allora, un attimo dopo la fine del film originale.

Un attimo dopo che Bruno Cortona ha detto al poliziotto, riferendosi al morto precipitato giù per la scogliera nella spider, «Si chiamava Roberto. Il cognome non lo so, l’ho conosciuto ieri mattina».

In quel seguito col mondo di oggi, la vita di oggi, i media di oggi, Bruno Cortona si sentirebbe in colpa per due minuti e mezzo (all’epoca forse sarebbero stati cinque minuti: era il 1962, la vita andava più lenta).

Poi inizierebbe il giro dei talk show, dei settimanali, dei posti semifissi nei reality.

Sarebbe irresistibile, naturalmente. È Bruno Cortona, cioè il più impunito degli impuniti, la massima espressione del carattere italiano, il carnefice per distrazione. Molto più interessante delle vittime.

È la ragione per cui negli articoli di cronaca sulle donne ammazzate da uomini che avevano respinto si parla sempre dell’assassino e mai dell’ammazzata: le vittime sono casuali, i carnefici sono la personalità su cui si costruisce la storia. L’analisi letteraria pseudofemminista con pretese etiche, fatta con la sponsorizzazione dei croccantini di Pavlov, avrebbe accusato Dostoevskij di maschilismo per essersi concentrato su Raskòl’nikov anziché sulla vecchietta.

Ma non divaghiamo. Torniamo a Bruno Cortona. Si atteggerebbe a vittima, naturalmente, com’è d’uso fare nella pubblicistica del presente. Sciorinerebbe ogni scusa per il proprio essere diventato un mascalzone: dall’insonnia all’infanzia infelice.

Venderebbe esclusive a giornali concorrenti, sbruffoneggerebbe sui cachet che la tv gli paga per raccontare le sue malefatte, sarebbe il bullo perfetto. Insomma: sarebbe Fabrizio Corona.

Quest’estate, quand’è stata diffusa la copertina del libro di memorie che Corona pubblicherà domani, ho discusso con un editore. La discussione non era su Fabrizio Corona: era su Elisabetta Sgarbi, che avrebbe pubblicato l’autobiografia (la terza? la quarta? Ho perso il conto) del Bruno Cortona che questo secolo si può permettere.

Adesso che il libro esce – domani, s’intitola Come ho inventato l’Italia – mi sono resa conto che le discussioni intorno a Elisabetta Sgarbi sono simili a quelle intorno a Corona. Da una parte c’è sempre qualcuno che dice «genio», dall’altra sempre qualcuno che dice «imbecille». E i detrattori sono spesso gente che voleva essere Corona (o la Sgarbi) ma gliene manca qualcosa. Decidete voi cosa. Le qualità, o i difetti.

Insomma, quest’estate io ero quella che diceva «genio», perché io sono il pubblico che vien via con poco, e la copertina con Corona nudo e delle banconote a coprirne le innominabilità mi pareva già la più clamorosa idea vista di recente nell’editoria italiana (non che sia un campionato competitivo, diciamo).

E poi il titolo mi faceva pensare che l’idea gli fosse venuta durante un’intervista a Chi di qualche settimana prima, in cui raccontava che tutto lo star system (sì, insomma: le comparse da programmi televisivi) italiano dei primi anni 2000 l’aveva inventato lui, che nessuno di quelli aveva un talento, li aveva creati lui facendoli accoppiare/tradire/lasciare sui rotocalchi. Erano venti righe più esaustive d’un anno accademico al Dams.

Il mio interlocutore, invece, diceva che l’operazione messa su dalla Sgarbi non aveva senso: quante biografie aveva già pubblicato Corona? Cosa mai poteva avere di nuovo da dire?

(Diceva Bibi Ballandi, il più formidabile inventore di televisione che si sia mai visto: la Messa è sempre quella, e ci vanno da duemila anni).

Naturalmente c’è una differenza non minore tra Cortona e Corona, e non è solo la consonante. È che Bruno Cortona sopravviveva. Se sopravvivi, la caratteristica precipua del tuo personaggio diventa quella: che le tue sbruffonate, le tue disattenzioni, le tue malefatte danneggiano gli altri, mica te. Corona senza consonante è uno che si è fatto la galera per una cosa che tutti i fotografi degli ultimi sessant’anni hanno fatto: proporre al ricco e famoso di comprarsi le proprie foto invece di farle uscire su un giornale. Per la stessa azione per cui quelli che fotografavano Gianni Agnelli incassavano l’assegno, Fabrizio Corona è finito in carcere. È Bruno Cortona in giro a raccontare l’incidente, ma è pure Roberto sfracellato nel burrone.

«Un tizio per mesi mi ha pagato cinquecento euro alla settimana perché aveva giurato alla sua fidanzata di essere il mio migliore amico: la domenica veniva con lei, da me, a prendere il caffè dopo pranzo, “Ciao grande!” gli dicevo, cinque minuti di chiacchiere, e via. La gente mi paga per una cialda Nespresso in mia compagnia. Perché? Perché ho sofferto in mondovisione le pene che mi ha inflitto il sistema e non sono crollato».

Non importa quanto Corona sia mitomane. Non importa se Nespresso abbia pagato per comparire in questa scena. Non importa se questo episodio sia vero, e in fondo non importa neppure il finale lirico (ci sono parti del libro che sono scritte in lingua da aspirante premio Strega, e chissà se è il ghost writer o Corona stesso ad avere afflati poetici: «Tutti erano dei ricettacoli di segreti infetti. Gli dèi dell’Occidente avevano peccati troppo umani da nascondere, i grandi d’Italia stipavano nei loro armadi piccoli scheletri, ossari di ratti»).

Importa solo che l’idea di pagare perché la morosa ti creda amico di Corona è grande sceneggiatura. Corona è il più grande sceneggiatore vivente, e quel seguito del Sorpasso potrebbe scriverlo solo lui.

Basta leggere il paragrafo in cui dice come va a finire dopo che, una sera per caso, ha presentato Briatore alla Gregoraci. «Il mese dopo gli diagnosticano un tumore maligno al rene sinistro. Cambia prospettiva esistenziale. Magari ha bisogno di radici, di casa. Si cura, glielo asportano. Riappare dopo molti mesi, forse un anno, col suo yacht da cento metri. Non in Sardegna, no. In Calabria. Invece che Naomi Campbell, stilisti e attori hollywoodiani, ora sulla barca c’è la famiglia autoctona della sua neo-moglie, Elisabetta Gregoraci, credo anche zii e cugini. E le lasagne» – e ora ditemi se Fabrizio Corona, nudo sulla copertina della sua ennesima bugiardissima confessione, non è l’unica trinità che possiamo permetterci, lo Scola/Maccari/Risi che ci serve per raccontare questo secolo.

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