Tiziano Ferro ha compiuto quarant’anni mentre stava arrivando il virus. Il che vuol dire che è nato all’inizio del 1980.
Secondo le enciclopedie è un early millennial; secondo Bret Easton Ellis è della generazione inetta; secondo Caroline Fourest è della generazione offesa; secondo me è della generazione lagna.
Il documentario sulla sua vita, tv del dolore come non se ne vedeva da quando la definizione serviva a dire che piangere in tv era un’eccezione, comincia così.
C’è una scena di preghiera finale d’una riunione degli alcolisti anonimi, e già sai che è tutto finto: mica ci sarebbe una telecamera, fosse una vera riunione. È una prima scena perfetta per stabilire che ciò che stiamo guardando è quel che in labranchiano chiameremmo trash e in inglese tacky (l’italiano inventa di continuo parole inglesi, giacché gli italiani s’impermaliscono molto se inventi parole italiane, tipo apericena).
Non è kitsch, cioè una burinata consapevole e divertita. È trash, cioè una burinata che si dà un tono. Fatta per far piangere le medie riflessive che si percepiscono troppo sofisticate per commuoversi davanti alla De Filippi, e alle quali quindi serve un C’è posta per te con pretese. Abbiamo il prodotto per voi: Ferro.
La prima scena, dicevo. Essendo tutto finto e quindi non anonimo, abbiamo i nostri bravi primi piani degli alcolizzati (in doppiaggese: alcolisti) che si presentano. E tu aspetti chiudano su lui: un po’ perché sai che stai guardando un documentario su Tiziano Ferro e mica ti farebbero vedere queste immagini da pomeriggio di Rete 4, se non ci fosse lui; un po’ perché tutta la pubblicistica te l’ha venduto come il documentario che ti narra l’ennesima debolezza di Tiziano Ferro, l’uomo che da solo riempie infinite caselle di politica identitaria: gay, ciccione, alcolizzato, e chi più ne ha più ci muova a compassione.
E quindi sì, chiudono su di lui (non c’è niente d’imprevedibile, in questo documentario: se non sarà la cosa più vista nella storia italiana di Prime, vuol dire che non capisco niente di televisione). Ma gli altri hanno detto il nome. Lui no (perché dovrebbe: il suo nome è il titolo del documentario, siamo qui per lui, mica quando esce sul palco si presenta): lui fa la faccia feroce. Sembra un attore della telenovela che giravano dentro Boris, preso per fare la parte dello spietato.
Tiziano Ferro ha quarant’anni, come Cesare Cremonini. Sono gli ultimi due d’un mondo che non c’è più. Dopo di loro hanno (mi scuso per la sciatta allegoria, buona per un documentario su Ferro) smantellato la sala parto in cui nascevano le popstar. Quelle che riempivano gli stadi, quelle che con quel lavoro facevano i milioni, quelle che vendevano i dischi (ve li ricordate, i dischi?).
Tiziano Ferro ha quarant’anni, abbastanza forza di volontà da essere un ex obeso, abbastanza talento da essere diventato l’ultima popstar italiana, e sta lì, nelle immagini d’un documentario a lui dedicato, a raccontarci il dramma: a scuola (venticinque anni prima? Trenta?) quelli cui non passava il compito lo menavano. Non lo racconta per dirci qualcos’altro, non lo racconta per far passare il messaggio «io sono diventato Tiziano Ferro, e loro portano giù l’umido mentre la moglie ha i bigodini in testa», non lo racconta con compiacimento postumo, con ironia, con distacco. Lo racconta nei toni vibranti che un’opera trash usa per farti piangere. È perfetto, certo.
È perfetto per il prodotto, ed è tragicamente perfetto come messaggio a quelli più giovani di lui. Se io, che ho fatto in tempo a diventare Tiziano Ferro, non mi sono ancora emancipato dagli inciampi adolescenziali, che speranza avete voialtri? Non combinerete mai un cazzo, non vi resta che piangervi addosso da subito. Avessi dei figli, pretenderei un comando per oscurare quest’opera di distruzione dell’autodeterminazione dai loro schermi.
Se pensavate che Chiara Ferragni che piange rievocando i grandi drammi della sua vita – un parto un po’ faticoso, un ex fidanzato che cerca di fregarla in affari senza riuscirci – fosse il perfettissimo manifesto della dolenza, non avete visto Ferro guardare fuori con sguardo tantintènzo da vetrate di alberghi e ristoranti milanesi con vista: sembra il provino perpetuo per un film di Douglas Sirk. Se pensavate d’aver visto ogni possibile feticismo della fragilità, ecco a voi Tiziano Ferro: racconta di conservare le transaminasi di quando era alcolizzato (chissà se in una cornice d’argento).
In questo manifesto del secolo fragile, Ferro lo dice proprio esplicitamente; dopo avere fatto gli elenchi di traumi quali il fatto che gli davano del ciccione, e poco prima di definire il proprio essere stato infelice come «esistono delle forme di degrado molto più sottili della povertà, della guerra», e un’ora prima di dire senza mettersi a ridere «Guardo il mondo dal filtro delle cicatrici». Lo dice esplicitamente: «Uno nasce con un dna da impopolare e se lo tiene». Lo dice di sé. Impopolare a vita. Uno che è Tiziano Ferro. Cosa volete mai sperare per le vostre vite, voi che manco sapete scrivere le canzonette. Ammazzatevi subito, orsù. Oppure lagnatevi a vita. Non è che ci sia una terza via.
«Mi vestivo ogni mattina di un corpo che non era il mio», dice del dramma del suo essere dimagrito. Ma, mica pensavate potesse mancare, c’è anche il dramma del suo essere gay. Dei discografici che vogliono imporgli foto fintamente rubate con donne (ma lui rifiuta: mica è un Garko qualunque) e vestiti maschili. Rievoca eroico, parlando dei propri venti e qualcosa anni: «Decido di non mentire, non parlo di fidanzate, non invento bugie».
Riavvolgiamo il nastro, sennò l’era della riproducibilità cosa esiste a fare. Torniamo a un’intervista del 2008.
«È vero che ti chiamano Latina Turner?», chiede il giornalista d’un mensile. «Questa se l’è inventata una giornalista: ha scritto che i gay mi chiamano così, ma probabilmente si riferiva a un paio di amici suoi, perché io questo nomignolo non l’ho mai sentito. Voglio chiarirlo subito, però. A me piacciono le donne, eccome! E mi dà fastidio che nell’ambiente dicano che sono un omosessuale non dichiarato. Ho 28 anni e sul mio conto sono nate più leggende che sui coccodrilli che sguazzano nelle fogne di New York». Per un pieno godimento dell’aneddoto: quella che aveva scritto che lo chiamavano Latina Turner ero io. La solita stronza fantasiosa. Lui invece sincero, sempre sé stesso, sempre eroico, come si autocertificherà dodici anni dopo.
«Sei stato di una verità che è arrivata alle persone che l’hanno visto», come dice una voce fuori campo mentre il Tiziano 2020 piange nel camerino sanremese dopo aver stonato Almeno tu nell’universo. «No dai, stanno scrivendo tutti benissimo», lo consolano. Più piangi e più funziona, Tizia’.
Anche Kim Kardashian è del 1980. Se siete di quelli che dicono «Non capisco che lavoro faccia», v’illuminerà sapere che, quando a marzo ha registrato l’intervista con Letterman che ora è su Netflix, a domanda rispondeva d’avere 162 milioni di follower. Adesso ne ha 191. Quando Letterman le chiede quanto abbia pagato la treccia finta che ha attaccata ai capelli, dice che le pare d’aver fatto un post su Instagram, in cambio d’una vita di forniture di extension. Cosa saranno, 250mila dollari, butta lì lui. Lei fa per dire sì, poi dice che non parla di soldi, sarebbe sconveniente. Quando Letterman le chiede della fama al tempo dei social, lei dice che ha detto alle sorelle «Faccio Letterman», e quelle: «Chi?».
Quattro anni fa, Kim Kardashian venne derubata a Parigi. Non una roba lieve: è da sola in camera, la sorella è uscita, il marito è in America, entrano due ladri armati puntando una pistola alla testa del concierge, la legano, la imbavagliano. Letterman glielo chiede. Lei racconta e piange. È un’epoca in cui le celebrità piangono perché erano grasse, mica ci aspettiamo che la più celebre delle celebri non pianga mentre rievoca quella sera in cui era legata sotto minaccia armata.
Il regista di Letterman il kitsch lo fa poco ma, quando lo fa, lo fa da professionista: primo piano sulle mani di madre e sorelle in platea, con le unghie più lunghe più colorate più da burine ricche d’America, che si stringono e sobbalzano, sobbalzano e si stringono. E Kim che dice che non vuole le si disfi il trucco, questa storia l’ha già raccontata, non sa mica perché piange. Piangi perché sei la più formidabile interprete di questo tempo, Kim. Neanche t’è servito dimagrire, per essere immedesimabile; neanche hai dovuto mascherare il tuo essere milionaria, evitare di ricomprarti i brillocchi o di festeggiare il compleanno in isole private, neanche hai dovuto fingerti una di noi – come una Ferragni che mangia il sushi dalla confezione da asporto e ci si chiede cosa sia milionaria a fare – perché ci specchiassimo: professionista.
Nel nuovo ciclo d’interviste di Letterman c’è anche Dave Chappelle, nero quarantasettenne nonché più bravo comico vivente. L’altroieri ha condotto il Saturday Night Live.
Il suo monologo è stato lungo circa il doppio della durata standard, e dentro c’era lo sguardo devoto della virologa a Trump («è per quello che guadagnate la metà, o il 70 per cento, quel che è: comunque troppo»), e l’amica che da Londra gli ha scritto che con Biden il mondo è un posto più sicuro, e lui ha risposto che però l’America no, perché lui se lo ricorda com’era prima del virus, una sparatoria e relativa strage a settimana, meno male che il virus ha chiuso a casa tutti gli assassini bianchi, «sia ringraziato Dio per il virus».
Ma ha aperto con la commovente storia del bisnonno schiavo, e ha chiuso con la violenza della polizia, perché è il più feroce monologhista del mondo ma anche uno che conosce lo Zeitgeist, che si accorge che le battute troppo stronze ormai mettono persino il pubblico nello studio del SNL a disagio, e sa cosa vogliamo innanzitutto vedere sullo schermo: gente che ci legittimi a frignare.
Van Jones è un esperto di riforma carceraria, è stato consigliere di Obama per i temi ambientali, ed è commentatore fisso sulla Cnn. È del 1968, non ha neanche l’attenuante generazionale: dovrebbe avere il controllo dei nervi d’un adulto.
Sabato, quando infine la vittoria di Biden è stata dichiarata, Anderson Cooper gli ha dato la parola, e lui ha cominciato con la lunare affermazione «stamattina è più facile essere un genitore in America». Cooper non gli ha chiesto a cosa diamine si riferisse, perché stava andando in onda dell’ottima televisione: quello ha iniziato a piangere, e ha singhiozzato per due minuti, dicendo cose che in un contesto razionale sarebbero vergognose («Non era solo George Floyd, tanti di noi non riuscivano a respirare») ma che se piangi sono incontrovertibili, se sei emotivo sono giuste, se sei fragile hai ragione. «In tanti mi chiedono da dove venga questa serenità», dice Tiziano Ferro dopo un’ora e un quarto di piangersi addosso. Pensa se non eri sereno.
Il fatto è che il mondo si divide in due.
Da una parte quelli che non sono fatti per quest’epoca. Quelli che, gli scappasse detto che essere grassi e sbeffeggiati è peggio della guerra e della povertà, poi pregherebbero il regista del loro documentario di buttare quel filmato. Dall’altra, quelli che sanno che la mancanza di senso del ridicolo è un male incurabile e diffusissimo, che affligge la più parte del pubblico. Quella che non vede l’ora di specchiarsi nel frignare dei famosi, e che è la maggioranza: se un male è di maggioranza, esso cessa d’essere un male e diventa il bene, diventa la norma.
Di essi – dei Ferro, delle Kardashian, dei Van Jones – è questo tempo, di essi è questo pianeta, di essi è il mercato dei fazzoletti, e pure quello del resto.