«Nel secolo XVII una libbra di pepe poteva essere comprata a Giacarta per una sterlina e rivenduta a Londra per 100. La differenza, tolti i costi di trasporto, andava tutta a chi aveva il controllo del mare». Nel libro Capitalismo immateriale l’informatico e imprenditore Stefano Quintarelli parla dei “gatekeepers”, chi esercita un potere di controllo sulla circolazione di un bene, un servizio o un’informazione. Nel 1600 la Compagnia delle Indie, facendo da tramite tra le colonie e l’impero britannico, si garantiva ampi margini di profitto, molto più alti del ritorno per i produttori di pepe a Giacarta. Oggi Google, Amazon, Facebook e Apple hanno preso il suo posto.
Non smerciano più spezie da Giacarta, ma trafficano in beni altrettanto preziosi: i dati. E questa volta ai nuovi gatekeepers non è nemmeno necessario alzare il prezzo (anzi i loro servizi sono gratuiti o a basso costo): hanno già in mano la fonte dei loro super profitti.
I numeri parlano chiaro: il 92% delle ricerche sul web transita da Google, 7,5 interazioni social su 10 hanno luogo su Facebook, un terzo degli acquisti online è intermediato da Amazon, uno smartphone su 4 ha marchio Apple. La loro capitalizzazione di borsa insieme anche a Microsoft supera i 7 mila miliardi di dollari: un quinto dell’intero indice S&P 500, il paniere azionario formato dalle 500 aziende statunitensi a maggiore capitalizzazione, e tredici volte l’indice italiano Ftse Mib. E i loro imperi digitali si stanno espandendo a macchia d’olio: il servizio Prime Video fa di Amazon un produttore cinematografico, Apple ha scelto Goldman Sachs per realizzare la sua carta di credito e le mire di Facebook come banchiere centrale sono ben note.
In un mercato digitale, il processo che fa diventare un’impresa dominante è anzitutto il risultato di forze economiche che difficilmente potremmo considerare patologiche: in particolare per le esternalità di rete, quel meccanismo per cui il valore di un servizio per l’utente cresce con il numero di altri utilizzatori che adottano la stessa piattaforma. È lo stesso meccanismo per cui ci siamo iscritti a Facebook e continuiamo a starci, perché ci sono tutti gli altri e più è alto il numero degli utenti più il social network è interessante.
Ma le Big Tech non hanno alcun interesse a condividere le cisterne piene dei dati che estraggono: più informazioni consentono di adattare i servizi in base alle preferenze dei singoli utenti, un servizio migliore attrae più utenti che a loro volta alimentano le cisterne, in uno schema che cementa la posizione dominante delle piattaforme. E il problema per chi vuole entrare in un mercato sempre più recintato non è tanto raccogliere il capitale per sviluppare software alternativi, quanto avere a disposizione i dati per renderli competitivi.
«Le aziende Gafam [Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft ndr] sono diventate dei veri colli di bottiglia e sono in grado di abusare del loro potere di mercato, ostacolando l’accesso a nuove realtà innovative» commenta a Linkiesta Tommaso Valletti, professore all’Imperial College di Londra ed ex capo economista della divisione concorrenza alla Commissione europea, dove ha lavorato a fianco di Margrethe Vestager per tre anni. «Sono aziende eccellenti, nessuno intende annichilirle. Ma come sarebbe il mondo se avessero permesso l’ingresso di altri concorrenti? La scelta degli utenti sarebbe cambiata?».
Si potrebbe obiettare – e i rappresentanti delle Big Tech lo hanno ricordato al Congresso americano a luglio – che questo meccanismo consente la rapida diffusione di nuovi servizi, spesso gratuiti, che migliorano le condizioni degli utenti. A questo si aggiunge il fatto che l’innovazione nei mercati digitali è fulminea e le nuove imprese che propongono servizi innovativi, a rigor di logica, possono scalzare le posizioni di forza dei leader di mercato. Se non fosse per quella pratica molto diffusa tra i giganti del web di acquisire le start-up più promettenti, per impedire che diventino in futuro temibili concorrenti. In meno di 20 anni le Gafam hanno completato circa 800 acquisizioni, in media 40 all’anno, frenando tra l’altro lo sviluppo tecnologico.
E la domanda da porsi è: quante innovazioni ha bloccato lo shopping delle Big Tech? Quanti servizi e quante app in più avrebbero facilitato la nostra vita? Come ha scritto l’economista Daron Acemoglu, le Gafam non possono che promuovere l’innovazione che favorisce il loro fatturato. Ma non è detto che questo sia sempre un bene per gli utenti. Le “killer acquisitions” sono costate decine di miliardi e hanno creato operatori verticalmente integrati, sotto l’occhio sbadato dei regolatori americani ed europei: il 97% di queste acquisizioni non sono nemmeno arrivate allo scrutinio dell’antitrust.
«Si riteneva che l’innovazione dirompente non avesse limite» racconta a Linkiesta Stefano Quintarelli, che è anche membro del comitato scientifico dei Copernicani. «Il refrain a Bruxelles era che la competizione fosse “a un clic di distanza” e che sarebbero nati spontaneamente nuovi attori in grado di contrastare i monopoli che si formavano. Nessuno teneva in conto gli effetti di rete o la path dependence», cioè la dipendenza della tecnologia dal percorso, secondo cui una tecnologia, seppur di minor qualità, può abbattere la concorrenza a causa delle condizioni di partenza.
Ma da qualche anno le autorità antitrust hanno preso coscienza del rischio insito in questi tecnopoli. Sotto la guida di Margrethe Vestager la Commissione ha colpito le prassi anticompetitive di Google con multe per 8,4 miliardi di euro, senza tuttavia riuscire a scalfirne il predominio. «Non sono mai state industrie soggette a regolamentazione ex ante» spiega il professor Valletti. «Navigano da sempre in un’area grigia, i regolatori non sanno mai in quale scatola normativa inserirli. Non sono operatori infrastrutturali, sfuggono alle regole sul trattamento dei contenuti. L’unica strada finora è stata l’intervento ex post dell’antitrust». Con indagini lente e sanzioni che possono impressionare l’opinione pubblica, ma certamente non un colosso da 160 miliardi annui di fatturato.
Se Google è il bersaglio più colpito dai regolatori – si veda la maxi accusa del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti o l’istruttoria avviata a fine ottobre dall’Antitrust italiano – l’ultima società nel mirino dell’antitrust è Amazon. Dopo un anno e mezzo di indagini, la Commissione europea è giunta alla conclusione che il gruppo di Jeff Bezos utilizza slealmente i dati raccolti sugli 800 mila rivenditori europei attivi sul portale a vantaggio dei suoi prodotti. La radice della questione è evidente: i dati sulle attività dei rivenditori non possono andare a beneficio di Amazon quando è in concorrenza con gli stessi rivenditori, come ha ribadito anche Vestager.
E la doppia vita dei giganti del web – gestori delle piattaforme e fornitori di servizi – è precisamente il motivo per cui la disciplina antitrust ha bisogno di un tagliando. Per questo stesso motivo la Commissione è impegnata ad accertare se Apple ponga dei limiti alla concorrenza richiedendo il 30% sugli acquisti in-app ai competitor, tra i quali c’è anche Spotify (che si divide il mercato proprio con Apple Music). E Google è accusata di premiare i propri servizi nelle ricerche online, facendo crollare i clic nei confronti delle aziende concorrenti.
«Le regole attuali sono da aggiornare» commenta Quintarelli, «per aprire il mercato sono fondamentali la portabilità dei dati e l’interoperabilità dei servizi. Altrimenti non c’è vera contendibilità degli utenti». E verso l’apertura dei cancelli si è schierata anche la Commissione, che si prepara a varare a dicembre il nuovo Digital Markets Act, un pacchetto normativo volto a riscrivere le regole del gioco. Al cuore dell’intervento ci sarebbe il Sacro Graal dell’antitrust: l’obbligo per i gatekeepers di condividere i dati degli utenti con i concorrenti più piccoli, sotto pena di non poterli utilizzare per le proprie attività commerciali.
Non è facile stimare la probabilità che la misura sia approvata, ma la bozza circolata a fine settembre ha già provocato qualche mal di stomaco alle Big Tech. L’obbligo di condivisione pone però un tema di privacy secondo Enzo Marasà, avvocato dello studio Portolano Cavallo. Le piattaforme del web, in gran parte dei casi, per condividere con terzi i dati personali dei propri utenti devono richiedere a ciascun utente uno specifico consenso (a meno che i dati non siano completamente anonimizzati). «Se la condivisione con i terzi fosse prevista per legge, potrebbe cadere l’obbligo di richiesta di un consenso specifico e distinto a discapito della tutela della privacy» spiega Marasà a Linkiesta.
Sulle killer acquisitions la linea è meno chiara e uniforme, sia a livello comunitario sia nazionale. Tra i colpi in canna c’è l’abbassamento della soglia di fatturato delle imprese oggetto di acquisizione (che essendo start-up potrebbe essere poco significativo, ma anche crescere molto velocemente), per farle cadere sotto la lente del regolatore. Che per contro potrebbe finire per catturare una grande quantità di transazioni irrilevanti, congestionando le risorse delle autorità. Aggiunge Marasà: «La Germania e l’Austria dal 2017 hanno introdotto delle nuove soglie di notifica basate sul valore della transazione, ovvero il prezzo dell’acquisizione o altri parametri di valore degli asset. Questo meccanismo sembra il più sensato, ma fino ad ora non sembra avere catturato alcuna operazione problematica».
Fuori gioco sembra invece l’opzione nucleare: lo “spezzatino” delle Big Tech, ossia la divisione delle loro attività, che secondo Vestager non è la mossa giusta. «Un grosso errore strategico. Non ha molto senso legarsi le mani in questo modo» secondo il professor Valletti. Ma un rimedio simile finirebbe probabilmente per scatenare una battaglia commerciale con gli Stati Uniti.
Il cantiere antitrust è stato aperto anche oltreoceano, con un recente rapporto della Camera americana di 449 pagine che paragona i colossi tecnologici ai baroni del petrolio di inizio Novecento (a cui peraltro fu imposto lo scorporo) e prescrive la fine dei monopoli. Almeno a parole, un’inversione di marcia dopo un ventennio di sonnolenza, in cui ha prevalso la politica del “liberi tutti” a patto che il consumatore non subisse un danno diretto.
«Merito anche della Cina» commenta ancora Quintarelli, «lo spettro dei giganti cinesi del web ha determinato la spinta verso regole pro-competitive». Dal canto loro, le Big Tech non sembrano preoccupate per la vittoria di Joe Biden alle presidenziali, che potrebbe avere le mani legate con il Senato in mano ai Repubblicani, da sempre più restii dei Democratici all’adozione di una linea ferrea. E sono forse ancora meno preoccupate perché sanno, come tutti, che per vincere la guerra commerciale con la Cina gli Stati Uniti avranno bisogno anche dei cavalieri della Silicon Valley e dei loro 7 mila miliardi di capitalizzazione. Comunque, le Big Tech si apprestano ad affrontare una “tempesta” antitrust da entrambi i lati dell’Atlantico (nell’ambiente si parla di “Tech Storm”). Facile che ne escano tutte intere, ma magari un po’ ammaccate.