Un secolo e qualcosa prima delle querele, in Italia tra politici e giornalisti c’era la mania dei duelli. Di uno di questi ci parla Giorgio Dell’Arti nel suo ultimo libro Gli onorevoli duellanti ovvero Il mistero della vedova Siemens (La Nave di Teseo, 176 pp., 17,10 euro). Un racconto a tratti tragicomico, che ci restituisce però lo specchio di un’epoca. Fondatore e direttore di Anteprima, collaboratore in tempi diversi con tutti i più grandi quotidiani e settimanali italiani, fondatore del Venerdì di Repubblica, autore di due biografie di Cavour e di un libro su Papa Francesco, «manipolatore» delle Note azzurre di Carlo Dossi in cui racconta i miti greci a mo’ di romanzo, Dell’Arti dice di aver scoperto questa storia all’interno di un progetto di approfondimento di quella Italietta che dice di considerare ingiustamente trascurata e dimenticata. «In realtà», ci spiega, «la nostra Repubblica e la nostra Costituzione sono state costruite sì in contrapposizione al fascismo, ma anche e soprattutto in continuità con un periodo liberale che ha tuttora molto in comune con noi».
Certo: era un Paese per molti versi diverso dal nostro. Ancora giovane, terribilmente arretrato, e però a differenza di noi in fondo fiducioso del proprio futuro. Molte cose però sono uguali. Ad esempio, un clima di corruzione diffusa. O, appunto, quel clima di litigiosità che oggi si sfoga soprattutto in tribunale. Anno dopo anno, Reporter senza frontiere abbassa regolarmente posizioni all’Italia nelle sue classifiche sulla libertà di stampa, proprio per la piaga delle querele temerarie. Allora, invece, si mandavano i padrini. Sicuramente era più pericoloso, ma curiosamente se i contendenti sopravvivevano lasciava meno strascichi, e addirittura lo scontro poteva aprire la strada a fervide amicizie.
Particolare che oggi può sembrare bizzarro: benché il duello fosse un chiaro residuo dell’epoca feudale, tra i duellanti più arrabbiati c’erano proprio leader della sinistra di allora. Più quella di estrazione risorgimentale di radicali e repubblicani che non quella socialista, in teoria. «Risse dei gentiluomini» erano definiti con sarcasmo i duelli dall’Avanti!: il che non impedì di accettare guanti di sfida allo stesso suo direttore Leonida Bissolati. «Tra repubblicani e clericali la differenza è enorme: gli uni han dato il sangue delle loro ferite, gli altri l’inchiostro dei loro anatemi» proclamava ad esempio il «bardo della democrazia» Felice Cavallotti. Lui stesso ex-garibaldino, poeta, drammaturgo, giornalista, deputato, instancabile e veemente denunciatore di scandali o corruzione.
Come leader del Partito Radicale ottocentesco, Cavallotti è stato considerato una sorta di Pannella del XIX secolo, per provocazioni come quella di rifiutare ripetutamente il giuramento di fedeltà al re richiesto ai parlamentari. Solo che invece che in scioperi della fame era appunto specializzato in duelli: ne fece trentuno, e morì 55enne al trentaduesimo, il 6 marzo del 1898. Trafitto alla carotide dal 36enne giornalista e deputato conservatore Ferruccio Macola: che aveva già affrontato appunto Bissolati; che aveva formulato una «modesta proposta» di mandare il Regio Esercito a conquistare il Sudamerica, per risolvere i problemi dell’emigrazione senza rompersi la testa con i coriacei guerrieri etiopici; e che continuerà a essere deputato fino al 1909. Ma poi per i rimorsi avrà un crollo nervoso, nel 1910 si toglierà la vita con un colpo di pistola. «Un sol colpo di sciabola aveva ucciso due uomini» commenterà il giornalista Luigi Lodi: che aveva assistito al duello, e che era diventato amico di Cavallotti proprio dopo averlo a sua volta affrontato sciabola alla mano.
La storia raccontata in questo libro riguarda un altro leader della sinistra: il repubblicano Eugenio Chiesa. Come formazione ragioniere, impiegato in una fabbrica milanese di giocattoli che poi era riuscito a rilevare, deputato in quel collegio di Carrara in cui il Pri oltre al voto storico mazziniano riusciva anche a intercettare un po’ di quello anarchico, a sua volta fustigatore della corruzione, dignitario della Massoneria, due volte segretario del partito. Durante la Grande Guerra, dopo Caporetto sarebbe stato chiamato al governo come ministro dell’aeronautica, in un clima di unità nazionale contro l’invasore. Per non giurare fedeltà al re rifiutò però il titolo, Vittorio Emanuele III acconsentì a una scappatoia, e così il repubblicano intransigente ma patriota e irredentista servì il governo del Regno come Alto Commissario. Più tardi sarebbe stato in prima linea nella denuncia del delitto Matteotti. Obbligato all’esilio dal fascismo, sarebbe morto in Normandia nel 1930, a 67 anni. Una sua figlia, Mary Tibaldi Chiesa, sarebbe stata a sua volta deputata del Pri tra 1949 e 1953, oltre che una scrittrice per ragazzi abbastanza nota anche per i suoi contributi a una collana all’epoca di culto: la famosa «Scala d’oro».
Un certo gusto sanguigno per la rissa Chiesa lo aveva sempre avuto. «Agli inizi della sua carriera politica», ci ricorda Dell’Arti, «dopo essere già stato in galera parecchie volte per andar dietro alle prediche mazziniane del dentista Giuseppe De Natino, il giovane Eugenio Chiesa si trovò ad amministrare l’Italia del Popolo, fogliuzzo milanese destinato agli studenti repubblicani, e per incoraggiarne la diffusione promise agli abbonati l’omaggio di un randello, e l’anno dopo di un fischio-sirena («formidabilmente adoperato quando arrivò Crispi a Milano»), e l’anno dopo ancora di un tirapugni “fuso sopra un magnifico modello americano”». Però, a differenza di tanti colleghi, non era un patito del duello. Piuttosto era un grintoso autore di interrogazioni e interpellanze a ripetizione, un deputato che in aula gridava spesso e faceva gazzarra, e a volte anche uno che dava e prendeva cazzotti.
Forse per tali ragioni questa storia era stata dimenticata. Dell’Arti racconta di esservici imbattuto praticamente per sbaglio: una ricerca sul Corriere della Sera del 1901 nel corso della quale sul numero dell’11 marzo si era imbattuto in un enorme titolo in prima pagina: Il duello tra il generale Fecia di Cossato e l’on. Chiesa. Misterioso, perché «fino al 10 marzo non si era minimamente parlato di questo possibile duello». Sorpresa, ricerche affannose senza risultato, fino alla scoperta che si era trattato di un semplice errore di diteggiatura: in realtà, la storia era apparsa sul giornale dell’11 marzo non 1901, ma 1911. Ma la storia emersa era talmente intrigante, che si è praticamente narrata da sola.
Sarebbe un peccato spoilerare troppo, ma possiamo qua comunque ricordare che la storia inizia nel 1909, quando muore il generale Tancredi Soletta. Già capo di Stato maggiore del Regio Esercito costretto alle dimissioni per motivi di salute, quando da colonnello era stato governatore dell’Eritrea aveva curiosamente preso una posizione fortissima contro quella mania dei duelli in teoria vietata dalla legge ma di fatto largamente tollerata. Sfidato infatti da un giornalista, chiesta e ottenuta conferma ai padrini che aveva il diritto a scegliere l’arma, aveva optato per “quella dei Reali Carabinieri”, a cui aveva fatto immediatamente scortare l’importuno all’imbarco per l’Italia.
Bizzarra nemesi, il nemico dei duelli diede spunto a una sfida colossale per via della sua relazione con Eleonora Füssli: giovane e avvenentissima vedova dell’erede del colosso tedesco Siemens, che era stata sposata anche a un aristocratico persiano, e che era una indefessa animatrice nei salotti romani della Belle Époque. Nel suo giro di reazioni mondane c’erano però anche altri pezzi grossi dell’esercito, come il generale e senatore Luigi Fecia di Cossato e il successore stesso di Pollio generale Saletta. Una storia di incontri nei più rinomati luoghi di villeggiatura e scambi di preziosi pezzi di antiquariato che accende l’attenzione di Chiesa. Filo-francese e ostile alla alleanza con Germania e Austria, il leader repubblicano e futuro Alto Commissario della Grande Guerra ritiene che la vedova sia una appunto una spia austro-tedesca, che seduce vecchi generali per carpir loro informazioni riservate. Chiesa porta la cosa in Parlamento con una interrogazione, il sottosegretario alla Guerra si rifiuta di rispondere, Chiesa dà in escandescenze e offende talmente tante persone che gli arrivano addirittura cinque sfide a duello tutte assieme. E il bello è, che appunto, non aveva mai toccata una sciabola in vita sua.
Il lettore sa già che lo sfidato salverà la pelle, in modo da poter appunto entrare al governo nel 1917. Il racconto di come ciò avverrà lo lasciamo alla penna di Dell’Arti, e chi vive a Roma può forse provare a ripercorrere i luoghi così vividamente descritti. Oltretutto, forse qualche trattoria dell’epoca c’è ancora. Senza anticipare altro, si può comunque ricordare che la già citata facilità degli sfidanti di accendersi in aula e in pubblico per poi riappacificarsi in trattoria davanti a qualche buon bicchiere alla fine contribuì forse ad alimentare quel clima di sfiducia per quello che oggi abbiamo ribattezzato “inciucio”, tale da far nascere quel sentimento che oggi abbiamo ribattezzato “antipolitica”. Allora i nomi ancora non c’erano, oggi non ci sono più i duelli, ma appunto per il resto le due epoche si assomigliano in modo impressionante.
Certo, allora l’antipolitica produsse Mussolini. Oggi ha prodotto Grillo. Ma è stato appunto Marx a spiegarci che la Storia quando si ripete la prima volta è in chiave di tragedia, la seconda in chiave di farsa.