Regno UnitoVa in crisi la Sohoficazione e si perdono i riferimenti

In Inghilterra è forse arrivato il momento di riflettere sui moderni epicentri della ristorazione, sulla cucina che vorremmo e su dove potrebbe essere davvero apprezzata

Quando tutto il Regno Unito è stato messo in lockdown a marzo, la gente nelle città del paese (e in giro nel mondo) è tornata a casa. Per la maggior parte delle persone a Londra ciò significava tornare alle zone più periferiche. Londra non è diversa da molte altre città internazionali – le sue parti centrali sono state svuotate di case abbordabili lasciando solo i super ricchi, gli uffici e le attività commerciali, molte delle quali sono ristoranti. Prima dell’epoca del coronavirus, l’industria della ristorazione a livello globale si sosteneva con le persone che rimanevano in centro dopo il lavoro, o che facevano il viaggio verso il centro. Questo modello ora sta tornando inesorabilmente, ma i mesi appena trascorsi mangiando a casa o nei suoi dintorni hanno concesso a molta gente una pausa per riflettere sul vecchio sistema e su chi ne sta davvero beneficiando.

Compresso in un miglio quadrato nel West End di Londra, Soho è stato un quartiere residenziale e commerciale della controcultura fino a tempi relativamente recenti. Oggi è sinonimo di ristoranti nello stesso modo in cui Covent Garden lo è per i teatri, Mayfair per gli oligarchi e la City per la corruzione finanziaria. Il sito web Eater London lo definisce l’epicentro della ristorazione londinese e Londonist il terreno di gioco dei ristoranti di Londra. Una su cinque delle ultime cento recensioni di ristoranti sui giornali dell’intero paese ha coperto un ristorante di Soho o il suo più ricco quartiere vicino di Fitzrovia. Oltre a ciò, Soho è diventato sinonimo di un certo tipo di ristorazione: casual, economica, internazionale, democratica. Tuttavia devo insistere su un aspetto: perché non c’è un posto decente in cui mangiare in un’area in cui ci viene detto a ripetizione che ci sono i migliori e i più abbordabili ristoranti che la città abbia da offrire?

La mia risposta a questa domanda è una cosa che io chiamo la sohoficazione dei ristoranti, o per darle un nome più completo, la fitzrovia-sohoficazione dei ristoranti. La sohoficazione non è un trend limitato soltanto a Soho o a Londra. È un fenomeno visibile in molti centri del mondo, dall’East Village di New York al Marais: forse lo stai vedendo svilupparsi anche tu nella tua città? Non è un indicatore di qualità (un po’ di generica competenza e nulla più), ma piuttosto una specie di omogeneizzazione, una riduzione delle cucine del mondo allo stesso bagaglio di regole, alla stessa struttura del piccolo piatto, agli stessi fornitori, agli stessi prezzi, alle stesse sale, allo stesso concetto di eccellenza. La sohoficazione ti restituisce il mondo ma te lo restituisce sanificato, un parco a tema in miniatura della ristorazione: un indiano, un iraniano, un cingalese, un peruviano, un giapponese, un coreano, un tailandese, tutti più o meno uguali.

A Londra la nascita di questo modello può essere fatta risalire a due ristoranti di Soho, nessuno dei quali è stato copiato con successo. Il primo era un ristorante chiamato Polpo, modellato ispirandosi a un bacaro veneziano che probabilmente non è mai esistito. Concentrandosi sulle piccole porzioni e i cicheti, ha creato una versione di cibo italiano per i londinesi che sembrava forte e nuova, lontanissima dall’immagine stantia che molti britannici hanno della pasta e della pizza. Il secondo ristorante era Koya, un udon bar che serviva piccoli piatti ispirati dalle tecniche giapponesi ma usando ingredienti stagionali britannici. Forse era una sohoficazione del cibo giapponese, ma era fatta in un modo che ha creato qualcosa di nuovo; nella sua inautenticità era anche l’unico ristorante giapponese di Londra che rispettava la conformazione attuale della cucina nipponica, che valorizza la dimensione temporanea del grande prodotto stagionale.

Da Koya in poi, c’è stato un proliferare di ristoranti a Soho che hanno cercato di copiare questo modello con diversi gradi di successo, in pochissimi avvicinandosi all’originale. Hoppers, Kolamba and Paradise per la cucina cingalese, Kricket e DUM Biryani per quella indiana, JinJuu per la coreana, Cay Tre per la vietnamita, Ceviche per la peruviana, Inko Nito per la giapponese, Nopi per l’orientale, Copita per la spagnola, Berenjak per l’iraniana, Yeni per la turca, Blanchette per la francese, e circa 200 ristoranti di pasta fresca per l’italiana. Anche i due ristoranti di maggiore successo, Kiln (thailandese) e Bao (taiwanese), rientrano vagamente in questa categoria, anche se entrambi sono più compiuti e scaltri rispetto agli altri che ho citato. Tutto ciò dona certamente a Soho un’immagine di diversità, che tuttavia è solo un simulacro di diversità. Se osservi il modo in cui questi ristoranti parlano di se stessi, noterai un tic verbale. Tipo:

Specializzati in piccoli piatti da condividere in sitle mazeh e kebab grigliati, con ingredienti britannici stagionali.

Ristorante “a bordo strada” che serve piatti alla griglia usando un fuoco aperto, ispirato alla cucina tailandese, e usando ingredienti britannici stagionali e selezionati.

Carni grigliate robatayaki e verdure di stagione su una stufa aperta al centro del ristorante.

Con un’enfasi su stagionalità e sostenibilità, il menu unisce ingredienti britannici e cingalesi preparati con approccio moderno.

La squadra applicherà le proprie tecniche e il proprio stile di cucina agli ingredienti locali e stagionali del Regno Unito, unendoli a ingredienti importati dalla Turchia.

I nostri piatti e drink sono ispirati da Lima e dalla costa del Perù, abbinando gli ingredienti peruviani a quelli britannici locali.

I nostri kebab sono realizzati con carne britannica allevata all’aperto e ingredienti stagionali di qualità.

Il nostro focus fin dalla riapertura nel 2011 è consegnare piatti di tapas molto gustosi con ingredienti eccellenti. Il menu è stagionale.

L’entusiasmante menu offre piatti coreani da condividere e contorni che incoraggiano un modo di mangiare conviviale.

Ora, ovviamente non c’è niente di unico nei ristoranti che dicono di usare ingredienti stagionali o locali, ma questo restituisce un’idea di come ogni ristorante, non importa la provenienza della cucina, suoni seguendo lo stesso spartito. Ciascuno di loro prende una cucina esistente e cerca di innalzarla, non cucinando meglio o essendo genuinamente creativo, ma aggiungendo valore attraverso ingredienti “stagionali”, prodotti famosi e locali e la sensazione di scarsità. Pochissimi di questi posti sono competitivi con i ristoranti frequentati dalle persone che mangiano questi cibi giorno dopo giorno, e in qualche modo fanno affidamento sul fatto che il pubblico e i media rimangano all’oscuro di ciò. Hoppers, per esempio, non è un ristorante interessante quanto Gana; nessuno dei ristoranti vietnamiti di Soho è migliore di quelli disponibili a Greenwich e Deptford; un cuoco che conosco che ha avuto una buona esperienza con l’hummus da Berenjak poi ha avuto una grande esperienza con l’hummus da Balady a Temple Fortune.

Le ragioni alla base di questa omogeneizzazione sono parte integrante della storia dell’omogeneizzazione dei nostri centro città, un’omogeneizzazione non figlia delle catene ma dei ristoranti indipendenti.  Ho detto che uno su cinque di tutti i ristoranti nazionali recensiti è di Soho/Fitzrovia, ma siamo a uno su cinque anche nelle aree molto più ricche di Mayfair e Chelsea. Non è una coincidenza. Sebbene non contigue, Mayfair e Chelsea rappresentano la spartizione di Londra tra le proprietà del Duca di Westminster e quelle del Conte di Cadogan (due vecchi proprietari terrieri britannici), e i ristoranti sono come sono perché i super ricchi hanno gusti orribili. I proprietari di Soho e Fitzrovia sono nuovi ricchi, con Soho Estates (formalmente Paul Raymond) che possiede un bel pezzo di Soho, Shaftesbury PLC che possiede quasi tutta Chinatown e pezzi significativi di Soho, Fitzrovia e Covent Garden, mentre la Mount Eden, di proprietà offshore, ha buona parte di Fitzrovia. Il presunto proprietario di Mount Eden, Samuel Tak Lee, è stato anche il più grande azionista di Shaftesbury, e ha cercato ripetutamente di acquisire una quota di controllo, finché a giugno ha venduto a Capco, che possiede un bel pezzo di… Covent Garden! Presto ci saranno ulteriori concentrazioni e la nascita di un super-proprietario il cui territorio feudale andrà da Carnaby Street fino a Kingsway.

La conseguenza di così tanta concentrazione di proprietà nelle mani di poche persone significa che è possibile una deliberata “curatela” degli spazi. Un po’ come succede con le aree ristoro che ti offrono tutti i sapori del mondo, i ristoranti di Soho sono attentamente curati: non da una compagnia del settore, ma dai proprietari e dai costruttori stessi. Nella Chinatown londinese si può vedere cosa succede quando il processo viene velocizzato in modo innaturale, con la zona che perde rapidamente il suo carattere da working class cantonese, e mentre a Soho e in misura minora a Fitzrovia il processo è stato più lento, si è dimostrato tuttavia non meno profondo. Soho e Fitzrovia sono diventati terreni da gioco della ristorazione.

Mentre sto scrivendo questo articolo ho fatto qualche indagine tra alcuni amici intimi, persone che mi seguono su Instagram, cuochi e scrittori, su ciò che pensano attualmente di Soho. La stragrande maggioranza di loro è riuscita a nominare da uno a tre ristoranti di Soho in cui mangiano regolarmente, con sette nomi che ricorrono in modo particolare: Koya Bar, Kiln, Bao, Duck Soup e Barrafina dal Nuovo Mondo, e Quo Vadis e Andrew Edmunds dal Vecchio Mondo. Il numero di locali segnalati piùà basso (zero) è del manager di un famoso ristorante londinese, il più alto (dodici) di una persona co-proprietaria di due ristoranti a Soho. Ma anche se accettassimo come rappresentativo l’estremo più alto, ci saranno almeno 200-300 locali in cui mangiare a Soho, cosa che fa anche di questa cifra un risultato molto ridotto. Anche se si può dire che forse i ristoranti di Soho sono per un pubblico diverso rispetto alle persone davvero interessate al cibo – un pubblico di persone che sono lì per mangiare qualcosa in centro dopo il lavoro – una fetta importante dei media gastronomici è impegnata a provare a convincerci che ci sono molti più grandi ristoranti in quel miglio quadrato di quanti ce ne sono effettivamente.

Un cuoco importante mi ha detto:

Una cosa che rende tutto così difficile sono i prezzi alti. A Soho ci si può aspettare di pagare 500.000 sterline solo per assicurarsi il posto, prima di poter fare qualsiasi lavoro e molto prima di avere un flusso di denaro a disposizione. È terrificante, la quantità di denaro che bisogna recuperare è spaventosa. Ci vogliono anni prima che si possa cominciare a fare soldi.

In modo un po’ labirintico torno al punto di origine. Quando apri un ristorante casual per il privilegio di essere a Soho, ti trovi immediatamente sulla difensiva, cercando di riguadagnare denaro con ogni mezzo necessario. Nessuna di queste condizioni porta alla grande cucina, figuriamoci alla cucina sostenibile o che non spreca. Tuttavia la sohoficazione dei ristoranti è avanzata lentamente al di fuori del miglio quadrato, arrivando a Fitzrovia e Covent Garden, ma anche in quartieri del sud di Londra come Peckham o Brixton, così come in grandi città britanniche come Manchester, Glasgow, Leeds e Birmingham, che seguono la direzione tracciata da Londra. E sono profondamente mediocri.

Mentre le nostre città cominciano a riaprire, non dovremmo pensare a preservare i loro centri così com’erano, ma riflettere su chi trae beneficio da questi ristoranti, su quanto sia veramente sostenibile una macchina auto-perpetuantesi di saturazione ristorativa e di crescita di affitti e prezzi. Molti dei ristoranti che ho elencato hanno aperto seconde o terze insegne per rimanere a galla, o sono essi stessi la seconda o la terza insegna. È un segreto noto alla maggior parte dei cuochi, ristoratori e scrittori: ci sono troppi ristoranti nel centro di Londra e alcuni dovrebbero chiudere – questa sarebbe sia un’opportunità per i proprietari degli stabili per chiedersi se accogliere diversi tipi di business, sia, si spera, per i ristoranti stessi per negoziare i propri affitti in modo che siano maggiormente in linea con gli incassi, con la minaccia di andarsene.

La pandemia potrebbe causare uno stop o un’inversione di rotta nella sohoficazione dei ristoranti, ma potrebbe anche invertire il processo di continua ristorantificazione di Soho. È una cosa buona. Dovremmo riflettere criticamente sul fatto se sia sano per una parte così consistente della città essere definita dal consumo in senso letterale e metaforico, e anche se lo fosse, su quanto omogeneizzante tale processo possa essere. Sohoficazione non vuol dire che troveremo gli stessi ristoranti nel centro di Londra, ma che li troveremo a Manchester e Edimburgo, a New York e Los Angeles, a Parigi e Milano. Piuttosto che celebrare le differenze tra le città, significa che si può prendere un volo per una qualsiasi delle principali città in Europa e trovare un ristorante che ci fa sentire come se fossimo a Soho perché è l’unico modello che funziona. Se la pandemia ha dato un’opportunità al mondo della ristorazione, è quella di pensare davvero in modo critico se un’area debba essere “epicentro della ristorazione”, e se la cucina che oggi ci rende felici, la cucina che molti cuochi vogliono veramente fare, non sia migliore servita altrove.

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