Joe Biden è il nuovo presidente degli Stati Uniti e della sua campagna elettorale, della sconfitta di Trump e degli scenari futuri hanno discusso al festival de Linkiesta Paola Peduzzi, vicedirettore del Foglio, Lia Quartapelle, deputata del Partito democratico, Francesco Costa, vicedirettore del Post e Mario Calabresi, giornalista e scrittore, in una chiacchierata coordinata dal direttore Christian Rocca.
Secondo Lia Quartapelle, abbiamo assistito alla «festa della democrazia, perché sono state le elezioni più partecipate di sempre, ed entrambi i candidati hanno fatto segnare il record di voti a causa dell’affluenza elevatissima. Tuttavia alla festa si contrappone un sistema di regole abbastanza opinabile, che ha reso tutto più complicato e lungo, e la mancanza di fair play che di solito si vede tramite il concession speech: Trump sta lanciando messaggi eversivi accusando il Partito democratico di aver organizzato brogli, e così facendo in realtà dimostra di essere un candidato perdente che sta provando a sovvertire il risultato».
L’idea di festa è relativamente smorzata da Mario Calabresi, che riprende questo concetto ma lo declina in un altro modo: «A causa del contesto questa sarà vittoria senza festa, niente emozioni o adrenalina. Biden si trova in una situazione strana, perché fa un risultato ottimo e invece a causa della narrazione monopolizzata dalle accuse di Trump e delle lungaggini delle procedure sembra quasi abbia vinto per stanchezza. Invece non solo ha raccolto più voti di Obama, ha scalzato l’occupante della Casa Bianca, invece in genere considerato favorito, e ha ripreso Stati cruciali come Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. È la vittoria di uomo anziano e di un altro secolo»
Paola Peduzzi concorda sulle difficoltà post-voto, peraltro ampiamente previste: «Sapevamo che sarebbero stati giorni complicati e sapevamo che Trump avrebbe approfittato dell’incertezza. Allo stesso tempo non sapevamo come avrebbe reagito Biden e il suo approccio calmo e fiducioso, con l’obiettivo di pacificare un paese diviso e polarizzato, ci fa intuire quale sarà il carattere della sua presidenza, sicuramente proverà a calmare le tensioni e tenere un atteggiamento più aperto nei confronti dell’opposizione».
Cosa succederà ora? Al netto delle posizioni eversive, Trump annuncia una lunga battaglia giudiziaria che potrebbe inquinare il passaggio di poteri. Secondo Francesco Costa, le prossime settimane saranno una sorta di «stress test per gli Stati Uniti, ma bisogna mettere le cose in ordine. Trump può fare alcune cose che ha minacciato, ne ha facoltà: può denunciare brogli se ritiene di avere elementi, ma poi naturalmente saranno i tribunali a decidere su eventuali ricordi; ha diritto a chiedere riconteggi, ma poi deve accettare il nuovo verdetto elettorale. Insomma, può portare le elezioni “in tribunale”, perché spera che, soprattutto se si arriva alla Corte Suprema, dove i conservatori hanno la maggioranza, i giudici gli diano ragione. I suoi poteri scadono a gennaio, e bisogna capire come li utilizzerà fino a quel momento. Ciò che sappiamo è che i leader militari prima delle elezioni hanno fatto un’inusuale riunione off the records con i giornalisti per chiarire che non volevano essere coinvolti nel processo elettorale. Trump non ha il sostegno dell’establishment militare, e rischia di perdere anche quello del Partito repubblicano nelle prossime settimane, quando in molti capiranno che legarsi troppo a lui potrebbe non essere conveniente per la loro carriera politica futura».
Per Paola Peduzzi il trumpismo «esce vivo da queste elezioni, ma è sempre stato molto legato a Trump, che dal 21 gennaio diventa un disoccupato con Twitter, senza Casa Bianca avrà una forza eversiva minore, e anche un seguito minore, anche se ovviamente una parte di Paese continuerà ad ascoltarlo», mentre Francesco Costa ritiene che il fenomeno incarnato da Trump potrebbe sopravvivergli, e anzi in qualche modo il presidente è stato il più grande limite di questa nuova corrente politica: «Trump trova un Gop già radicalizzato, quindi sfrutta, con la sua personalità, un terreno molto fertile. Non è da escludere che un politico meno impopolare di lui, che comunque ha perso il voto popolare per due volte, e che sia in grado di incarnare in modo meno esagerato idee molto presenti alla destra del campo, possa avere molto successo».
Gli invitati al festival de Linkiesta si sono poi soffermati sulle relazioni transatlantiche e sulla politica estera degli Stati Uniti di Joe Biden. Secondo Lia Quartapelle, il legame tra Europa e Stati Uniti sarà rinsaldato, visto che Trump ha sempre lavorato per «dividere gli europei, basti pensare alla Brexit, che ha rivendicato più volte, e di cui secondo me lui è stato anche prodotto: senza quel referendum il clima non sarebbe stato lo stesso, e Trump quelle elezioni probabilmente non le avrebbe vinte, così come (e questo è un altro tema che c’entra molto con l’Europa), senza l’interferenza da parte russa. Credo che al contrario Biden sarà molto più vicino ai nostri interessi, che poi sono gli interessi dell’occidente: senza America l’occidente semplicemente non esiste».
Un’analisi sostanzialmente condivisa da Mario Calabresi, che individua proprio il rapporto con l’Europa come «primo dossier che cambierà, visto che il mondo di riferimento di Joe Biden è l’occidente, e quindi la Nato. Trump non ha mai fatto mistero di non sopportare l’Europa, inevitabilmente il presidente democratico cambierà questo approccio. Ci auguriamo anche un ritorno degli americani nel Mediterraneo, perché francamente è meglio avere gli Stati Uniti ben presenti intorno alle nostre coste rispetto a quello che accade ora, con turchi e russi che hanno approfittato del vuoto lasciato da Trump».